Papa Benedetto XVI ha dedicato a Beda il Venerabile, la catechesi dell'Udienza Generale di oggi, tenutasi in Piazza San Pietro, con la partecipazione di oltre 15.000 persone.
San Beda nacque in Northumbria, nel Nord-Est dell'Inghilterra, nell'anno 672/673. All'età di 7 anni i suoi parenti lo affidarono all'abate del vicino monastero benedettino perché venisse educato. "Di fatto, Beda divenne" - ha precisato il Santo Padre - "una delle più insigni figure di erudito dell'alto Medioevo. (...) L'insegnamento e la fama degli scritti gli procurarono molte amicizie con le principali personalità del suo tempo, che lo incoraggiarono a proseguire nel suo lavoro da cui in tanti traevano
beneficio".
"Le Sacre Scritture sono la fonte costante della riflessione teologica di Beda. (...) Egli commenta la Bibbia leggendola in chiave cristologica, cioè riunisce due cose: da una parte ascolta che cosa dice esattamente il testo (...); dall'altra parte, è convinto che la chiave per capire la Sacra Scrittura come unica Parola di Dio è Cristo e con Cristo, nella sua luce, si capisce l'Antico e il Nuovo Testamento come 'una' Sacra Scrittura. Le vicende dell'antico e del Nuovo Testamento vanno insieme, sono cammino verso Cristo, benché espresse in segni e istituzioni diverse (è quella che egli chiama 'concordia sacramentorum')".
"E come per la costruzione dell'antico tempio contribuirono anche genti pagane, mettendo a disposizione materiali pregiati e lesperienza tecnica dei loro capimastri, così all'edificazione della Chiesa contribuiscono apostoli e maestri provenienti non solo dalle antiche stirpi ebraica, greca e latina, ma anche dai nuovi popoli, tra i quali Beda si compiace di enumerare gli Iro-Celti e gli Anglo-Sassoni".
"Un altro tema amato da Beda è la storia della Chiesa" - ha ricordato Benedetto XVI - "Nei 'Chronica Maiora' Beda traccia una cronologia che diventerà la base del Calendario universale 'ab incarnatione Domini' (...). Infine redige con rigore documentario (...) la 'Storia Ecclesiastica dei Popoli Angli', per la quale è riconosciuto come 'il padre della storiografia inglese".
"I tratti caratteristici della Chiesa che Beda ama evidenziare sono: a) la cattolicità come fedeltà alla tradizione e insieme apertura agli sviluppi storici, e come ricerca della 'unità nella molteplicità (...); b) l'apostolicità e la romanità: a questo riguardo ritiene di primaria importanza convincere tutte le Chiese Iro-Celtiche e dei Pitti a celebrare unitariamente la Pasqua secondo il calendario romano".
"Beda fu anche un insigne maestro di teologia liturgica" - ha proseguito il Pontefice - "Nelle Omelie sui Vangeli domenicali e festivi, svolge una vera mistagogia, educando i fedeli a celebrare gioiosamente i misteri della fede e a riprodurli coerentemente nella vita, in attesa della loro piena manifestazione al ritorno di Cristo, quando, con i nostri corpi glorificati, saremo ammessi in processione offertoriale all'eterna liturgia del cielo".
"Grazie a questo suo modo di fare teologia intrecciando Bibbia, Liturgia e Storia, Beda ha un messaggio attuale per i diversi 'stati di vita' del cristiano: agli studiosi (...) ricorda due compiti essenziali: scrutare le meraviglie della Parola di Dio per presentarle in forma attraente ai fedeli; esporre le verità dogmatiche evitando le complicazioni eretiche e attendendosi alla 'semplicità cattolica', con l'atteggiamento dei piccioli e umili ai quali Dio si compiace di rivelare i misteri del Regno".
"I pastori, per parte loro, devono dare la priorità alla predicazione, non solo mediante il linguaggio verbale o agiografico, ma valorizzando anche icone, processioni e pellegrinaggi (...); alle persone consacrate (...) Beda raccomanda di curare l'apostolato, (...) sia collaborando con i Vescovi in attività pastorali di vario tipo a favore delle giovani comunità cristiane, sia rendendosi disponibili alla missione evangelizzatrice presso i pagani, fuori del proprio paese".
Il Santo Erudito afferma che "Cristo Sposo vuole una Chiesa industriosa (...), intenta a dissodare altri campi (...) cioè a inserire il Vangelo nel tessuto sociale e nelle istituzioni culturali. In questa prospettiva il santo Dottore esorta i fedeli laici ad essere assidui all'istruzione religiosa (...). Insegna loro come pregare continuamente, (...) offrendo tutte le azioni come sacrificio spirituale in unione con Cristo".
Beda il Venerabile morì nel maggio dell'anno 735. "Con le sue opere, Beda contribuì efficacemente alla costruzione di una Europa cristiana".
Fonte: V.I.S. - Vatican Information Service
— Beda il Venerabile nell'udienza di Benedetto XVI
mercoledì febbraio 18, 2009
Angelo GambellaAspetti e problemi dell'evangelizzazione in America Latina (Parte 2)
lunedì ottobre 20, 2008
Aspetti e problemi dell'evangelizzazione in America Latina (Parte 2)
di Roberta Fidanzia
Per capire lo spirito francescano è necessario fare una breve premessa basata sulla Regola non bollata di S. Francesco.
Nel capitolo sedicesimo si esprime il modo di evangelizzare voluto dal Santo: “i frati che vanno presso gli infedeli e i saraceni possono stabilire un dialogo spirituale in due modi. Uno è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio affinchè infedeli e saraceni credano in Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, nel Figlio redentore e salvatore e siano battezzati e si facciano cristiani, perché se ognuno non sarà nato di nuovo dall’acqua e dallo Spirito Santo non potrà entrare nel Regno di Dio ”.
Si rinuncia, cosi, alla violenza, anche simbolica, per divulgare la fede.
È pur necessario tener presente che in Europa, nello stesso periodo, si assisteva ad una Riforma Cattolica, intesa non come pura reazione alla Riforma Protestante, ma come movimento nnovatore interno alla Chiesa stessa e che cercava di riportare la Chiesa all’originale spirito cristiano.
E questo ideale si mantenne sempre vivo nell’Ordine francescano che voleva far valere il Vangelo come norma vitae per tutti i cristiani.
Queste, quindi, erano le idee che circolavano tra i francescani di quell’epoca, tanto che molti di essi credevano sinceramente che nelle ìndie avrebbero instaurato la vera Chiesa, profetizzata dal Nuovo Testamento e da Gioacchino da Fiore , le cui idee, nonostante la condanna del 1215 da parte del Concilio Lateranense, sopravvissero fino al XIV secolo, influenzando sia alcune correnti cattoliche e sia alcune correnti della Riforma protestante.
Secondo fray Toribio de Benavente, soprannominato dagli indios “Motolinia”, che significa “poverello”, “estos indios en si no tienen estorbo que impida para ganar el cielo de los muchos que los espanoles tenemos y nos tienen sumidos, porqué su vida se contenta con muy poco ” ed anche un altro frate, Jerónimo de Mendieta, ci ha lasciato testimonianza delle qualità cristiane di questi indios quando, nella sua Historia Eclesiàstica Indiana, dice che “puédese afirmar por verdad infalible, que en el mundo non se ha descubierto naciòn o generaciòn de gente mas dispuesta y aparejada para salvar sus ànimas aue los indios de està Nuova Espana ...” ed elenca le condizioni e qualità naturali degli indios “muy favorables para hacer vida cristiana y para agradar a Dios ”.
Queste qualità cristiane sono rappresentate dalla docilità, mansuetudine, frugalità, semplicità, obbedienza, umiltà, pazienza e disponibilità al perdono, doti caratteristiche del buon francescano, ma anche del suddito perfetto , ideale lontano dal conquistatore.
Anche se gli spagnoli, infatti, dimostravano molto rispetto per le leggi, per esempio con la lettura del Requerimiento , non avevano dimostrato di possedere nei confronti degli indios le qualità morali del suddito perfetto. Però proprio per questa loro mitezza e docilità, gli indios, non erano adatti a governarsi da soli, ma dovevano essere guidati. Per questo i frati francescani, che sognavano di creare nelle Indie la vera Chiesa Apostolica, - nella quale non si deve vedere, però, un progetto di indipendenza politica del regno indiano, che non aveva mai sfiorato l’anima dei francescani -, dato il comportamento scandaloso dei conquistadores, molto poco cristiano, pensavano di costituire una “Republica de indios” divisa dalla “Republica de espanoles”.
La divisione non era, quindi, per questioni di razza, ma per evitare che l’evangelizzazione che essi si riproponevano di impartire agli indios non venisse inquinata dall’esempio dannoso degli spagnoli, ritenendo, tra l’altro, di poter ottenere più “ascetismo e rigore morale dagli indios che non dagli spagnoli ”.
II loro ideale era costituire una organizzazione ecclesiastica indiana - sempre non intesa in senso politico -, ma in questo furono combattuti dalla Santa Sede, che temeva una eccessiva autonomia dei frati e che continuava e continuerà a lungo a mantenere pregiudizi su indios e mestizos, escludendoli dagli ordini religiosi fino al XVIII secolo e rifiutando, nel XVII secolo, la canonizzazione dell’attuale S. Rosa da Lima , perché indiana. Sembra, dunque, che gli indios vivessero naturalmente secondo lo schema di vita dello spirito francescano: la loro alimentazione è poverissima, come i loro vestiti, hanno molta pazienza nel sopportare le malattie, non si preoccupano di accumulare ricchezze e non si uccidono fra loro per il potere, come testimonia “Motolinìa”.
E qui è chiaro il riferimento ai conquistadores, che pur di guadagnare ricchezza e potere erano pronti ad uccidere indiscriminatamente gli indios, considerati comunque animali inferiori, e ad uccidersi fra di loro, tradendo anche i vecchi amici e soci .
Nonostante i francescani abbiano accettato lo stampo politico della conquista, prima dei Re Cattolici e dopo dell’Imperatore Carlo V, non assumeranno il carattere economico della colonizzazione che era quello di accumulare ricchezze. “L’attività missionaria dei francescani - infatti – deve essere vista alla luce del “modo apostolico” e del fervore della “osservanza” alla quale appartenevano i francescani ” missionari. È, dunque, il Vangelo il centro della vita di S. Francesco: egli non voleva fondare un ordine religioso come gli altri, ma voleva riscattare per tutta la Chiesa, non la Chiesa intesa come istituzione presieduta dal papa, ma la Chiesa come comunità dei cristiani, il Vangelo come fonte di vita e di dedizione a tutte le persone, in qualsiasi condizione esse si trovassero.
Francesco, il “filosofo dell’Amore Cristiano”, come lo definisce Hans Welzel , non si oppone alla Chiesa Imperiale di Innocenzo III, come invece farà Lutero contro la corruzione della Chiesa Romana di Alessandro VI, ma non ne assume il progetto.
Così quello che caratterizza i francescani nelle loro missioni non sono le caratteristiche del comando, dell’imposizione, ma sono le caratteristiche dell’anima, della delicatezza, della dedizione, dell’accoglienza fraterna e del rispetto per tutte e per ogni persona ed essere vivente. E il Vangelo della Parola viva di Gesù, il Servo Soffrente, alla quale i francescani faranno sempre riferimento nelle loro opere.
Rifacendosi strettamente al Vangelo, S. Francesco prima ed i suoi seguaci dopo, esalteranno alcuni concetti fondamentali per la conversione dei popoli.
Primo fra tutti il concetto della povertà, così calzante per la situazione nelle Indie, dove, come è già stato messo in evidenza, gli indios erano poveri, vivevano poveri naturaliter.
L’universo dei francescani era composto di compassione e comunione, concetti comuni agli indios e come S. Francesco non cercò di organizzare strutture di aiuto per i poveri, ma diventò uno di essi, cosi i francescani nella loro missione si unirono agli indios, vivevano in comunione con loro e si sforzavano di capirli.
Molti di essi cominciarono a studiare i loro idiomi: “giocando con pietruzze e pagliuzze per provocare la spontaneità della comunicazione” per poter apprendere così il maggior numero di parole indigene, arrivarono anche a compilare i primi dizionari e le prime grammatiche .
Questo dimostra la forte volontà di avvicinarsi a quei popoli, cercando di spiegare concetti cristiani con parole indigene o quando questo non era possibile, per esempio per mancanza di un corrispettivo indigeno di un concetto cristiano, cercando di far assimilare la lingua spagnola.
Si inserivano, così, in quelle culture, constatandone alcuni valori simili ai valori cristiani e difendendo gli indigeni dalla cupidigia degli spagnoli.
Se non fosse stato per i frati di S. Francesco, la Nuova Spagna sarebbe stata come le isole, “que ni hay indio a quien ensenar la ley de Dios ”, così scrive Motolinia riguardo all’opera di mediazione che attuarono i francescani tra gli spagnoli e gli indios, impedendo la distruzione completa di quei popoli e delle loro culture. L’avidità degli spagnoli si era rivolta in due direzioni: la prima era nata dalla Conquista ed era stata quella di ogni conquistatore colpito dalla fame di bottino, la seconda era nata dalla colonizzazione ed era dello Stato, dell’Hacienda Real, che voleva aumentare le entrate fiscali.
I francescani ritenevano che il primo compito del sovrano fosse quello di garantire il bene comune delle repubbliche che componevano i suoi domini e si opposero radicalmente alla politica dei repartimientos, che volevano dividere la popolazione in uomini liberi e uomini “naturalmente” inferiori e per questo “giustamente” sottomessi, secondo la concezione aristotelica dell’ineguaglianza degli uomini per natura.
Così il sovrano e gli spagnoli si sarebbero procurati il bene provocando il male degli altri e questo non era inconcepibile.
A chi si opponeva a tale tesi, sostenendo che questa dottrina era antica, quindi giusta e che la politica dei repartimientos era già radicata da molto tempo nelle Indie e che per questo anch’essa era giusta, i francescani rispondevano che “también los pecados son cosa muy antigua en el mundo y no por eso son buenos ”.
Per questo gli indios dovevano essere “tutelati” Essi non erano capaci di governarsi da soli, non per inferiorità mentale, anzi essi avevano una piena “idoneità al sapere” alla quale, però, si associa una piena “inidoneità al potere ”. Avranno sempre bisogno, quindi, del “tutelaje” dei frati. Lo stesso Mendieta dice che gli indios “no son buenos para mandar ni regir, sino para sor mandados y regidos ”. I francescani costituirono le basi per un incontro tra le culture e non vollero provocare uno scontro, che avrebbe potuto rivelarsi irreparabile, come quello compiuto ad opera dei conquistadores.
Un secondo concetto fondamentale dei francescani, derivante comunque da quello della povertà, era la fraternità universale.
Povertà era comunione con Cristo e spoliazione che avvicina estremamente all’“altro”. La povertà fa sparire tutte le differenze e vince il demonio che vive nella smania di potere e ricchezza. La fraternità non è intesa solamente verso gli uomini da S. Francesco ed i suoi seguaci, ma anche verso la natura, con tutti gli esseri viventi e questo era un altro concetto comune alla vita degli indios, che vivevano nella natura e della natura, senza troppi artifici.
Altra caratteristica dei francescani è la partecipazione di tutti alla vita della Chiesa Apostolica.
Non c’è gerarchia, non c’è chi comanda e chi obbedisce, tutti sono ugualmente partecipi, ma nel caso degli indios questi devono essere guidati, non possono essere abbandonati. Essi sono già “orfani” della cultura cristiana e devono essere evangelizzati con l’esempio, la migliore “predica” agli occhi dei francescani .
Così in America Latina i francescani instaurarono un dialogo, non un rapporto scalare, ma vollero porsi “come bambini in mezzo ai bambini ”.
Questi, per lo meno, furono i concetti di partenza dei primi missionari francescani. Successivamente, infatti, le cose cambiarono. I missionari cercarono di mantenere vivi i loro ideali, ma furono impediti in questo sia dal potere statale e sia dal potere papale, tanto che le facoltà di evangelizzare e somministrare i sacramenti, concesse ai francescani in occasione della missione del 1523, vennero “restituite”, più o meno mezzo secolo dopo, al clero secolare, considerato più adatto ad europeizzare gli indios ed al quale vennero affidate anche le diocesi, che così acquistò maggior potere nei loro riguardi. L’approccio francescano al mondo indigeno della Nuova Spagna, dunque, presenta due aspetti complementari: da un lato lo studio delle tradizioni indigene e dall’altro il loro uso per un rinnovamento ecclesiale. Nei frati francescani è presente un notevole sforzo di comprensione del mondo dell’altro e di adattamento alle sue categorie culturali. Essi si unirono agli indios e ne condivisero la cultura e, anche senza aprire la partecipazione religiosa attiva ad indios, negri e mestizos, essi sono stati i testimoni della semplicità evangelica e dell’amore verso tutti, soprattutto verso i poveri, dando concretezza e credibilità alla proposta cristiana. Già con Filippo II si assiste alla riduzione del potere concesso ai frati regolari e alla distruzione della loro opera di studio e compromesso con le culture che erano andati ad evangelizzare.
— Roberta Fidanzia
di Roberta Fidanzia
Per capire lo spirito francescano è necessario fare una breve premessa basata sulla Regola non bollata di S. Francesco.
Nel capitolo sedicesimo si esprime il modo di evangelizzare voluto dal Santo: “i frati che vanno presso gli infedeli e i saraceni possono stabilire un dialogo spirituale in due modi. Uno è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio affinchè infedeli e saraceni credano in Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, nel Figlio redentore e salvatore e siano battezzati e si facciano cristiani, perché se ognuno non sarà nato di nuovo dall’acqua e dallo Spirito Santo non potrà entrare nel Regno di Dio ”.
Si rinuncia, cosi, alla violenza, anche simbolica, per divulgare la fede.
È pur necessario tener presente che in Europa, nello stesso periodo, si assisteva ad una Riforma Cattolica, intesa non come pura reazione alla Riforma Protestante, ma come movimento nnovatore interno alla Chiesa stessa e che cercava di riportare la Chiesa all’originale spirito cristiano.
E questo ideale si mantenne sempre vivo nell’Ordine francescano che voleva far valere il Vangelo come norma vitae per tutti i cristiani.
Queste, quindi, erano le idee che circolavano tra i francescani di quell’epoca, tanto che molti di essi credevano sinceramente che nelle ìndie avrebbero instaurato la vera Chiesa, profetizzata dal Nuovo Testamento e da Gioacchino da Fiore , le cui idee, nonostante la condanna del 1215 da parte del Concilio Lateranense, sopravvissero fino al XIV secolo, influenzando sia alcune correnti cattoliche e sia alcune correnti della Riforma protestante.
Secondo fray Toribio de Benavente, soprannominato dagli indios “Motolinia”, che significa “poverello”, “estos indios en si no tienen estorbo que impida para ganar el cielo de los muchos que los espanoles tenemos y nos tienen sumidos, porqué su vida se contenta con muy poco ” ed anche un altro frate, Jerónimo de Mendieta, ci ha lasciato testimonianza delle qualità cristiane di questi indios quando, nella sua Historia Eclesiàstica Indiana, dice che “puédese afirmar por verdad infalible, que en el mundo non se ha descubierto naciòn o generaciòn de gente mas dispuesta y aparejada para salvar sus ànimas aue los indios de està Nuova Espana ...” ed elenca le condizioni e qualità naturali degli indios “muy favorables para hacer vida cristiana y para agradar a Dios ”.
Queste qualità cristiane sono rappresentate dalla docilità, mansuetudine, frugalità, semplicità, obbedienza, umiltà, pazienza e disponibilità al perdono, doti caratteristiche del buon francescano, ma anche del suddito perfetto , ideale lontano dal conquistatore.
Anche se gli spagnoli, infatti, dimostravano molto rispetto per le leggi, per esempio con la lettura del Requerimiento , non avevano dimostrato di possedere nei confronti degli indios le qualità morali del suddito perfetto. Però proprio per questa loro mitezza e docilità, gli indios, non erano adatti a governarsi da soli, ma dovevano essere guidati. Per questo i frati francescani, che sognavano di creare nelle Indie la vera Chiesa Apostolica, - nella quale non si deve vedere, però, un progetto di indipendenza politica del regno indiano, che non aveva mai sfiorato l’anima dei francescani -, dato il comportamento scandaloso dei conquistadores, molto poco cristiano, pensavano di costituire una “Republica de indios” divisa dalla “Republica de espanoles”.
La divisione non era, quindi, per questioni di razza, ma per evitare che l’evangelizzazione che essi si riproponevano di impartire agli indios non venisse inquinata dall’esempio dannoso degli spagnoli, ritenendo, tra l’altro, di poter ottenere più “ascetismo e rigore morale dagli indios che non dagli spagnoli ”.
II loro ideale era costituire una organizzazione ecclesiastica indiana - sempre non intesa in senso politico -, ma in questo furono combattuti dalla Santa Sede, che temeva una eccessiva autonomia dei frati e che continuava e continuerà a lungo a mantenere pregiudizi su indios e mestizos, escludendoli dagli ordini religiosi fino al XVIII secolo e rifiutando, nel XVII secolo, la canonizzazione dell’attuale S. Rosa da Lima , perché indiana. Sembra, dunque, che gli indios vivessero naturalmente secondo lo schema di vita dello spirito francescano: la loro alimentazione è poverissima, come i loro vestiti, hanno molta pazienza nel sopportare le malattie, non si preoccupano di accumulare ricchezze e non si uccidono fra loro per il potere, come testimonia “Motolinìa”.
E qui è chiaro il riferimento ai conquistadores, che pur di guadagnare ricchezza e potere erano pronti ad uccidere indiscriminatamente gli indios, considerati comunque animali inferiori, e ad uccidersi fra di loro, tradendo anche i vecchi amici e soci .
Nonostante i francescani abbiano accettato lo stampo politico della conquista, prima dei Re Cattolici e dopo dell’Imperatore Carlo V, non assumeranno il carattere economico della colonizzazione che era quello di accumulare ricchezze. “L’attività missionaria dei francescani - infatti – deve essere vista alla luce del “modo apostolico” e del fervore della “osservanza” alla quale appartenevano i francescani ” missionari. È, dunque, il Vangelo il centro della vita di S. Francesco: egli non voleva fondare un ordine religioso come gli altri, ma voleva riscattare per tutta la Chiesa, non la Chiesa intesa come istituzione presieduta dal papa, ma la Chiesa come comunità dei cristiani, il Vangelo come fonte di vita e di dedizione a tutte le persone, in qualsiasi condizione esse si trovassero.
Francesco, il “filosofo dell’Amore Cristiano”, come lo definisce Hans Welzel , non si oppone alla Chiesa Imperiale di Innocenzo III, come invece farà Lutero contro la corruzione della Chiesa Romana di Alessandro VI, ma non ne assume il progetto.
Così quello che caratterizza i francescani nelle loro missioni non sono le caratteristiche del comando, dell’imposizione, ma sono le caratteristiche dell’anima, della delicatezza, della dedizione, dell’accoglienza fraterna e del rispetto per tutte e per ogni persona ed essere vivente. E il Vangelo della Parola viva di Gesù, il Servo Soffrente, alla quale i francescani faranno sempre riferimento nelle loro opere.
Rifacendosi strettamente al Vangelo, S. Francesco prima ed i suoi seguaci dopo, esalteranno alcuni concetti fondamentali per la conversione dei popoli.
Primo fra tutti il concetto della povertà, così calzante per la situazione nelle Indie, dove, come è già stato messo in evidenza, gli indios erano poveri, vivevano poveri naturaliter.
L’universo dei francescani era composto di compassione e comunione, concetti comuni agli indios e come S. Francesco non cercò di organizzare strutture di aiuto per i poveri, ma diventò uno di essi, cosi i francescani nella loro missione si unirono agli indios, vivevano in comunione con loro e si sforzavano di capirli.
Molti di essi cominciarono a studiare i loro idiomi: “giocando con pietruzze e pagliuzze per provocare la spontaneità della comunicazione” per poter apprendere così il maggior numero di parole indigene, arrivarono anche a compilare i primi dizionari e le prime grammatiche .
Questo dimostra la forte volontà di avvicinarsi a quei popoli, cercando di spiegare concetti cristiani con parole indigene o quando questo non era possibile, per esempio per mancanza di un corrispettivo indigeno di un concetto cristiano, cercando di far assimilare la lingua spagnola.
Si inserivano, così, in quelle culture, constatandone alcuni valori simili ai valori cristiani e difendendo gli indigeni dalla cupidigia degli spagnoli.
Se non fosse stato per i frati di S. Francesco, la Nuova Spagna sarebbe stata come le isole, “que ni hay indio a quien ensenar la ley de Dios ”, così scrive Motolinia riguardo all’opera di mediazione che attuarono i francescani tra gli spagnoli e gli indios, impedendo la distruzione completa di quei popoli e delle loro culture. L’avidità degli spagnoli si era rivolta in due direzioni: la prima era nata dalla Conquista ed era stata quella di ogni conquistatore colpito dalla fame di bottino, la seconda era nata dalla colonizzazione ed era dello Stato, dell’Hacienda Real, che voleva aumentare le entrate fiscali.
I francescani ritenevano che il primo compito del sovrano fosse quello di garantire il bene comune delle repubbliche che componevano i suoi domini e si opposero radicalmente alla politica dei repartimientos, che volevano dividere la popolazione in uomini liberi e uomini “naturalmente” inferiori e per questo “giustamente” sottomessi, secondo la concezione aristotelica dell’ineguaglianza degli uomini per natura.
Così il sovrano e gli spagnoli si sarebbero procurati il bene provocando il male degli altri e questo non era inconcepibile.
A chi si opponeva a tale tesi, sostenendo che questa dottrina era antica, quindi giusta e che la politica dei repartimientos era già radicata da molto tempo nelle Indie e che per questo anch’essa era giusta, i francescani rispondevano che “también los pecados son cosa muy antigua en el mundo y no por eso son buenos ”.
Per questo gli indios dovevano essere “tutelati” Essi non erano capaci di governarsi da soli, non per inferiorità mentale, anzi essi avevano una piena “idoneità al sapere” alla quale, però, si associa una piena “inidoneità al potere ”. Avranno sempre bisogno, quindi, del “tutelaje” dei frati. Lo stesso Mendieta dice che gli indios “no son buenos para mandar ni regir, sino para sor mandados y regidos ”. I francescani costituirono le basi per un incontro tra le culture e non vollero provocare uno scontro, che avrebbe potuto rivelarsi irreparabile, come quello compiuto ad opera dei conquistadores.
Un secondo concetto fondamentale dei francescani, derivante comunque da quello della povertà, era la fraternità universale.
Povertà era comunione con Cristo e spoliazione che avvicina estremamente all’“altro”. La povertà fa sparire tutte le differenze e vince il demonio che vive nella smania di potere e ricchezza. La fraternità non è intesa solamente verso gli uomini da S. Francesco ed i suoi seguaci, ma anche verso la natura, con tutti gli esseri viventi e questo era un altro concetto comune alla vita degli indios, che vivevano nella natura e della natura, senza troppi artifici.
Altra caratteristica dei francescani è la partecipazione di tutti alla vita della Chiesa Apostolica.
Non c’è gerarchia, non c’è chi comanda e chi obbedisce, tutti sono ugualmente partecipi, ma nel caso degli indios questi devono essere guidati, non possono essere abbandonati. Essi sono già “orfani” della cultura cristiana e devono essere evangelizzati con l’esempio, la migliore “predica” agli occhi dei francescani .
Così in America Latina i francescani instaurarono un dialogo, non un rapporto scalare, ma vollero porsi “come bambini in mezzo ai bambini ”.
Questi, per lo meno, furono i concetti di partenza dei primi missionari francescani. Successivamente, infatti, le cose cambiarono. I missionari cercarono di mantenere vivi i loro ideali, ma furono impediti in questo sia dal potere statale e sia dal potere papale, tanto che le facoltà di evangelizzare e somministrare i sacramenti, concesse ai francescani in occasione della missione del 1523, vennero “restituite”, più o meno mezzo secolo dopo, al clero secolare, considerato più adatto ad europeizzare gli indios ed al quale vennero affidate anche le diocesi, che così acquistò maggior potere nei loro riguardi. L’approccio francescano al mondo indigeno della Nuova Spagna, dunque, presenta due aspetti complementari: da un lato lo studio delle tradizioni indigene e dall’altro il loro uso per un rinnovamento ecclesiale. Nei frati francescani è presente un notevole sforzo di comprensione del mondo dell’altro e di adattamento alle sue categorie culturali. Essi si unirono agli indios e ne condivisero la cultura e, anche senza aprire la partecipazione religiosa attiva ad indios, negri e mestizos, essi sono stati i testimoni della semplicità evangelica e dell’amore verso tutti, soprattutto verso i poveri, dando concretezza e credibilità alla proposta cristiana. Già con Filippo II si assiste alla riduzione del potere concesso ai frati regolari e alla distruzione della loro opera di studio e compromesso con le culture che erano andati ad evangelizzare.
Aspetti e problemi dell'evangelizzazione in America Latina (Parte 1)
giovedì ottobre 16, 2008
di Roberta Fidanzia
La Chiesa spagnola giunse in America con i conquistadores nel secondo viaggio di Cristoforo Colombo e, successivamente, ogni spedizione portò nel Nuovo Mondo altri missionari. Per primi giunsero i frati: domenicani, francescani, mercedariani, agostiniani, ecc. Da principio prevalsero i domenicani, poi i francescani ed, infine, i gesuiti.
Il passaggio dalla fede primitiva degli Aztechi e degli Incas alla disciplina del Cattolicesimo avvenne apparentemente con molta semplicità. La conquista religiosa del Nuovo Mondo fu, in realtà, un trionfo effimero: i monaci battezzarono decine di migliaia di indiani, ma questi non esitarono a riesumare i loro idoli e riti originari non appena si rese necessario fermare la distruzione dei raccolti da parte degli insetti o scongiurare la peste.
Per gli indiani, inoltre, era naturale la poligamia, che i monaci, naturalmente, combatterono tenacemente, anche se non erano aiutati dall’esempio dei conquistadores, i quali si univano a più donne indiane a dispetto dei severi ammonimenti dei frati .
Sembrava, quindi, un incontro - scontro tra i due mondi, ma grazie all’opera coraggiosa e costante di alcuni frati, che eleva la Chiesa Cattolica di quell’epoca, si riuscirono a trovare dei punti di contatto fondamentali per il successivo svolgimento della storia religiosa dell’America Latina.
L’America indiana, infatti, era pronta ad accogliere il Vangelo: le religioni degli aborigeni li rendevano aperti all’insegnamento dei monaci.
Anche se gli indios adoravano diverse e numerose divinità, tendevano al esaltarne una su tutte le altre . Gli indiani, inoltre, non solo erano preparati ad un certo monoteismo, ma anche alla promessa di una vita dopo la morte . Molti avevano credenze sul ciclo e l’inferno, su premi e punizioni al di là della tomba .
Inoltre sia agli Aztechi che agli Incas riuscì familiare l’organizzazione ecclesiastica degli spagnoli, poiché avevano già avuto un ordine sacerdotale gerarchico. II simbolo della Croce era loro familiare, alcuni dei loro antichi sacramenti erano simili a quelli cristiani: il battesimo con l’acqua era molto diffuso e fra gli Aztechi si celebrava il rito della confessione seguito dalla penitenza . Restavano comunque le difficoltà di comunicazione: la confessione per un lungo periodo di tempo venne amministrata con la mediazione degli interpreti, sulle cui capacità di tradurre appropriatamente il linguaggio dottrinale della fede si possono nutrire molti dubbi . Una vera evangelizzazione, e non una mera imposizione, si poteva ottenere rispettando ed accostandosi alle tradizioni di questi popoli per capirle e sfruttarle a vantaggio del fine ultimo, che era appunto quello di evangelizzare.
Autori di questo genere di evangelizzazione furono i frati appartenenti all’Ordine fondato dal “poverello” di Assisi, S. Francesco.
I francescani furono tra i primi frati ad arrivare in America Latina.
Il 25 aprile 1521, con la bolla papale Alias Felicis, due francescani, Juàn Capión e Francisco de los Angeles, futuro ministro generale dell’Ordine, furono autorizzati a “predicare il Vangelo, svolgere il ministero parrocchiale ed impartire i sacramenti ”, facoltà riservate al clero secolare.
Considerando che la Regola di S. Francesco era ispirata alla Parola del Vangelo, Francisco de los Angeles organizzò la missione del 1523 per il Messico scegliendo dodici frati francescani “poiché tale fu il numero dei discepoli di Cristo per la conversione del mondo ”.
Il “loro” Cristianesimo, verrà accettato da tutte le culture, mentre spesso la Chiesa, con la sua organizzazione gerarchica, con il suo potere complice della colonizzazione, con l’Inquisizione, con le guerre religiose e con il marcare differenze tra clerici e laici, uomini e donne, ecc., non sempre sarà accettata, ma, anzi, sovente, rifiutata. La povertà di questi frati francescani sarà invece il simbolo dell’accoglienza, essi godranno della benevolenza degli indios, con la loro tenerezza, delicatezza, fraternità, dedizione ai poveri e a tutti gli esseri del Creato, guadagneranno numerose anime al Vangelo.
Gli indios soffrivano sotto il giogo de los doctrineros, ovvero i loro parroci, e, specialmente, sotto quello degli encomenderos, i proprietari terrieri ai quali erano encomendados affinchè ricevessero una educazione cristiana e che, invece, sfruttavano la loro forza di lavoro rendendoli schiavi. Mentre chiedono al cielo di essere liberati dai cristiani, intesi come cristiani non i frati, ma gli spagnoli che gli mostravano un dio crudele e senza pietà, amavano molto i francescani. Agli indigeni piacevano i frati perché erano poveri e scalzi come loro e con loro si comportavano con dolcezza. L’ordine dei francescani è un ordine povero per una regione povera, essi vivevano gli ideali della generosità e della reciprocità, tipici delle culture precolombiane, che permeavano tutti gli aspetti della vita degli indios, dalla religione all’economia. L’economia incaica, per esempio, si basava sulla reciprocità e redistribuzione, intendendo per reciprocità “non solo uno scambio di lavoro, di energia umana, prima che scambio di cose, ma la permanenza delle obbigazioni derivate da tale scambio, nel tempo e nelle generazioni successive ”.
Ma questa reciprocità non era limitata al campo economico, si estendeva, anzi, anche al campo religioso.
Infatti, come mette in evidenza Steve Stern , l’obiettivo da raggiungere era il “Tincuna”, ovvero il luogo dove i due fiumi si uniscono, creando l’armonia, l’incontro con gli dei - antenati, i quali, in cambio della venerazione, concedevano la buona salute, raccolti abbondanti, ecc., mentre chi li dimenticava ne subiva la vendetta.
Anche gli Aztechi avevano una società ben organizzata e riflettente la religione: il “maceualli”, cioè l’abitante di una delle tre città federate, Messico, Texcoco e Tlacopàn, alla testa dell’impero, “pagava una imposta, ma le distribuzioni di viveri e di indumenti, che provenivano dal tributo delle province, dovevano compensarlo in larga parte ”.
Essi venerando il dio della pioggia Tlaloc ottenevano, in cambio, la pioggia per raccolti abbondanti, o se non venerato a sufficienza lo stesso dio scatenava a piacere l’uragano devastatore o la siccità.
Dicevano: "O mio signore, principe mago, a te appartiene veramente il mais ".
Questo era molto simile all’ideale cristiano francescano, basato sul lavoro comune, sulla distribuzione equa dei prodotti, sulla preghiera rivolta al Signore guadagnarsi la sua benevolenza e la salvezza eterna, il luogo dell’armonia, mentre chi viveva ignorando Dio non ne avrebbe guadagnato la benevolenza, ma rischiava di scatenarne l’ira con la conseguente dannazione eterna.
— Roberta Fidanzia
La Chiesa spagnola giunse in America con i conquistadores nel secondo viaggio di Cristoforo Colombo e, successivamente, ogni spedizione portò nel Nuovo Mondo altri missionari. Per primi giunsero i frati: domenicani, francescani, mercedariani, agostiniani, ecc. Da principio prevalsero i domenicani, poi i francescani ed, infine, i gesuiti.
Il passaggio dalla fede primitiva degli Aztechi e degli Incas alla disciplina del Cattolicesimo avvenne apparentemente con molta semplicità. La conquista religiosa del Nuovo Mondo fu, in realtà, un trionfo effimero: i monaci battezzarono decine di migliaia di indiani, ma questi non esitarono a riesumare i loro idoli e riti originari non appena si rese necessario fermare la distruzione dei raccolti da parte degli insetti o scongiurare la peste.
Per gli indiani, inoltre, era naturale la poligamia, che i monaci, naturalmente, combatterono tenacemente, anche se non erano aiutati dall’esempio dei conquistadores, i quali si univano a più donne indiane a dispetto dei severi ammonimenti dei frati .
Sembrava, quindi, un incontro - scontro tra i due mondi, ma grazie all’opera coraggiosa e costante di alcuni frati, che eleva la Chiesa Cattolica di quell’epoca, si riuscirono a trovare dei punti di contatto fondamentali per il successivo svolgimento della storia religiosa dell’America Latina.
L’America indiana, infatti, era pronta ad accogliere il Vangelo: le religioni degli aborigeni li rendevano aperti all’insegnamento dei monaci.
Anche se gli indios adoravano diverse e numerose divinità, tendevano al esaltarne una su tutte le altre . Gli indiani, inoltre, non solo erano preparati ad un certo monoteismo, ma anche alla promessa di una vita dopo la morte . Molti avevano credenze sul ciclo e l’inferno, su premi e punizioni al di là della tomba .
Inoltre sia agli Aztechi che agli Incas riuscì familiare l’organizzazione ecclesiastica degli spagnoli, poiché avevano già avuto un ordine sacerdotale gerarchico. II simbolo della Croce era loro familiare, alcuni dei loro antichi sacramenti erano simili a quelli cristiani: il battesimo con l’acqua era molto diffuso e fra gli Aztechi si celebrava il rito della confessione seguito dalla penitenza . Restavano comunque le difficoltà di comunicazione: la confessione per un lungo periodo di tempo venne amministrata con la mediazione degli interpreti, sulle cui capacità di tradurre appropriatamente il linguaggio dottrinale della fede si possono nutrire molti dubbi . Una vera evangelizzazione, e non una mera imposizione, si poteva ottenere rispettando ed accostandosi alle tradizioni di questi popoli per capirle e sfruttarle a vantaggio del fine ultimo, che era appunto quello di evangelizzare.
Autori di questo genere di evangelizzazione furono i frati appartenenti all’Ordine fondato dal “poverello” di Assisi, S. Francesco.
I francescani furono tra i primi frati ad arrivare in America Latina.
Il 25 aprile 1521, con la bolla papale Alias Felicis, due francescani, Juàn Capión e Francisco de los Angeles, futuro ministro generale dell’Ordine, furono autorizzati a “predicare il Vangelo, svolgere il ministero parrocchiale ed impartire i sacramenti ”, facoltà riservate al clero secolare.
Considerando che la Regola di S. Francesco era ispirata alla Parola del Vangelo, Francisco de los Angeles organizzò la missione del 1523 per il Messico scegliendo dodici frati francescani “poiché tale fu il numero dei discepoli di Cristo per la conversione del mondo ”.
Il “loro” Cristianesimo, verrà accettato da tutte le culture, mentre spesso la Chiesa, con la sua organizzazione gerarchica, con il suo potere complice della colonizzazione, con l’Inquisizione, con le guerre religiose e con il marcare differenze tra clerici e laici, uomini e donne, ecc., non sempre sarà accettata, ma, anzi, sovente, rifiutata. La povertà di questi frati francescani sarà invece il simbolo dell’accoglienza, essi godranno della benevolenza degli indios, con la loro tenerezza, delicatezza, fraternità, dedizione ai poveri e a tutti gli esseri del Creato, guadagneranno numerose anime al Vangelo.
Gli indios soffrivano sotto il giogo de los doctrineros, ovvero i loro parroci, e, specialmente, sotto quello degli encomenderos, i proprietari terrieri ai quali erano encomendados affinchè ricevessero una educazione cristiana e che, invece, sfruttavano la loro forza di lavoro rendendoli schiavi. Mentre chiedono al cielo di essere liberati dai cristiani, intesi come cristiani non i frati, ma gli spagnoli che gli mostravano un dio crudele e senza pietà, amavano molto i francescani. Agli indigeni piacevano i frati perché erano poveri e scalzi come loro e con loro si comportavano con dolcezza. L’ordine dei francescani è un ordine povero per una regione povera, essi vivevano gli ideali della generosità e della reciprocità, tipici delle culture precolombiane, che permeavano tutti gli aspetti della vita degli indios, dalla religione all’economia. L’economia incaica, per esempio, si basava sulla reciprocità e redistribuzione, intendendo per reciprocità “non solo uno scambio di lavoro, di energia umana, prima che scambio di cose, ma la permanenza delle obbigazioni derivate da tale scambio, nel tempo e nelle generazioni successive ”.
Ma questa reciprocità non era limitata al campo economico, si estendeva, anzi, anche al campo religioso.
Infatti, come mette in evidenza Steve Stern , l’obiettivo da raggiungere era il “Tincuna”, ovvero il luogo dove i due fiumi si uniscono, creando l’armonia, l’incontro con gli dei - antenati, i quali, in cambio della venerazione, concedevano la buona salute, raccolti abbondanti, ecc., mentre chi li dimenticava ne subiva la vendetta.
Anche gli Aztechi avevano una società ben organizzata e riflettente la religione: il “maceualli”, cioè l’abitante di una delle tre città federate, Messico, Texcoco e Tlacopàn, alla testa dell’impero, “pagava una imposta, ma le distribuzioni di viveri e di indumenti, che provenivano dal tributo delle province, dovevano compensarlo in larga parte ”.
Essi venerando il dio della pioggia Tlaloc ottenevano, in cambio, la pioggia per raccolti abbondanti, o se non venerato a sufficienza lo stesso dio scatenava a piacere l’uragano devastatore o la siccità.
Dicevano: "O mio signore, principe mago, a te appartiene veramente il mais ".
Questo era molto simile all’ideale cristiano francescano, basato sul lavoro comune, sulla distribuzione equa dei prodotti, sulla preghiera rivolta al Signore guadagnarsi la sua benevolenza e la salvezza eterna, il luogo dell’armonia, mentre chi viveva ignorando Dio non ne avrebbe guadagnato la benevolenza, ma rischiava di scatenarne l’ira con la conseguente dannazione eterna.
Attribuiti a S. Agostino 6 sermoni della Bibliotheca Amploniana
giovedì marzo 27, 2008
Sei nuovi sermoni di S. Agostino sono stati scoperti in un manoscritto della 'Bibliotheca Amploniana' dell'Università di Erfurt in Germania.
Ne da notizia l'Università con un comunicato diffuso sul sito istituzionale.
— Angelo Gambella
Ne da notizia l'Università con un comunicato diffuso sul sito istituzionale.
I cappuccini e il libro a Reggio Emilia
lunedì dicembre 31, 2007
In occasione dell’inaugurazione della nuova Biblioteca e del nuovo
Museo dei Beni Culturali Cappuccini di Reggio Emilia, viene allestita una mostra che svela per la prima volta al pubblico i grandi tesori custoditi negli archivi dell’Ordine. Quaranta volumi risalenti al XVII e XVIII secolo saranno proposti fino al 28 febbraio 2008 in un percorso espositivo che guida il visitatore in un viaggio tra opere dedicate alla filosofia, alla teologia, alla retorica, all’architettura, alla geografia e a ogni campo del sapere. Scritte da frati Cappuccini che nel corso dei secoli si sono dedicati allo studio e alla catalogazione, le opere esposte sono una testimonianza di come tra i frati e il libro si sia instaurato un rapporto secolare ancora oggi in grado di coinvolgere e stupire. Per scoprire come le meraviglie naturali del Congo furono descritte per la prima volta da un frate viaggiatore, per stupirsi di fronte a frontespizi di rara raffinatezza o a un trattato che svela i misteri delle meridiane o le meraviglie architettoniche dei conventi emiliani. Senza dimenticare la significativa esposizione di opere di fra Stefano Da Carpi ospitata al secondo piano del Museo, un omaggio dovuto a uno dei pennelli più affascinati e originali del Seicento emiliano. Un piccolo saggio delle meraviglie contenute nella storica Biblioteca dell’Ordine ora tornata a nuova vita. Il tutto inserito nella rinnovata cornice del Museo dei Beni Culturali Cappuccini che, a ottanta anni dalla sua fondazione, riapre a Reggio Emilia con uno spazio espositivo che non mancherà di ospitare numerosi appuntamenti dedicati all’arte e alla cultura.
Museo dei Beni Culturali Cappuccini di Reggio Emilia
Via Ferrari Bonini, 6 – Reggio Emilia
— Roberta Fidanzia
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Museo dei Beni Culturali Cappuccini di Reggio Emilia, viene allestita una mostra che svela per la prima volta al pubblico i grandi tesori custoditi negli archivi dell’Ordine. Quaranta volumi risalenti al XVII e XVIII secolo saranno proposti fino al 28 febbraio 2008 in un percorso espositivo che guida il visitatore in un viaggio tra opere dedicate alla filosofia, alla teologia, alla retorica, all’architettura, alla geografia e a ogni campo del sapere. Scritte da frati Cappuccini che nel corso dei secoli si sono dedicati allo studio e alla catalogazione, le opere esposte sono una testimonianza di come tra i frati e il libro si sia instaurato un rapporto secolare ancora oggi in grado di coinvolgere e stupire. Per scoprire come le meraviglie naturali del Congo furono descritte per la prima volta da un frate viaggiatore, per stupirsi di fronte a frontespizi di rara raffinatezza o a un trattato che svela i misteri delle meridiane o le meraviglie architettoniche dei conventi emiliani. Senza dimenticare la significativa esposizione di opere di fra Stefano Da Carpi ospitata al secondo piano del Museo, un omaggio dovuto a uno dei pennelli più affascinati e originali del Seicento emiliano. Un piccolo saggio delle meraviglie contenute nella storica Biblioteca dell’Ordine ora tornata a nuova vita. Il tutto inserito nella rinnovata cornice del Museo dei Beni Culturali Cappuccini che, a ottanta anni dalla sua fondazione, riapre a Reggio Emilia con uno spazio espositivo che non mancherà di ospitare numerosi appuntamenti dedicati all’arte e alla cultura.
Museo dei Beni Culturali Cappuccini di Reggio Emilia
Via Ferrari Bonini, 6 – Reggio Emilia