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AGENSU :: Agenzia d'informazione telematica per la storia e le Scienze Umane

Dio dirà l’ultima parola

mercoledì novembre 29, 2006

Fiorenzo Emilio Reati, Dio dirà l’ultima parola. La persecuzione della Chiesa cattolica in Russia in epoca sovietica.



Emilio Reati è stato Direttore dell’Istituto Superiore per gli studi filosofici “San Tommaso d’Aquino”, attualmente è professore al Seminario cattolico di San Pietroburgo, nonché docente di Filosofia presso l’Università Statale di San Pietroburgo.
Emilio Reati, prima di tutti i titoli accademici, è un frate francescano che vive e lavora in Russia da circa nove anni. La sua sensibilità emerge con forza dalle pagine di questo suo ultimo studio, ‘piccolo volume’, com’egli stesso lo definisce, che prelude alla stesura di un volume più consistente già in elaborazione. Il libro, piccolo nelle dimensioni, non lo è sicuramente nei contenuti, che risultano essere di una crudezza estrema in quanto desunti e dimostrati da documenti ufficiali cui Reati è il primo ad accedere dopo lunghi decenni di ‘cortina di silenzio’.
Così esordisce, infatti, l’Autore nell’introduzione: “Le vicende che narrerò in questo libro mettono in luce la silenziosa testimonianza di fede in Dio e di perdono per il persecutore di migliaia di vescovi, preti, monaci, monache e di fedeli laici incarcerati, torturati, fucilati in epoca sovietica” .
Mettere in luce, portare alla luce, significa scavare senza sosta negli archivi sigillati, ancora ma non per molto, dell’ex-Unione Sovietica, far emergere dalla facciata ideologica dell’utopia comunista i risvolti neri, oscuri della pratica leninista e di partito, ma soprattutto, per lo spirito francescano di Reati, significa evidenziare, rendere manifesta, la forza della fede che ha sostenuto tutti i martiri del regime comunista e l’amore per gli altri, - “l’amore della vittima che perdona il suo assassino [...] [come rivelano le parole] del patriarca ortodosso russo Tichon [...]: ‘Beati voi che sarete insultati, perseguitati e calunniati a causa di Cristo; gioite nel vostro soffrire, amate il vostro assassino, non rispondete mai alla violenza con la violenza, ma solo con l’amore’” -, che li ha contraddistinti e soprattutto allontanati, separati nettamente, violentemente, dai loro oppressori che nella loro concezione di libertà hanno interiorizzato l’eliminazione della diversità e della resistenza alla negazione della verità e della storia.
“Morire di morte violenta in un gelido lager sconosciuto dell’immensa Russia per amore di Cristo... questa è la gloria più alta, questa è la luce più splendida della ‘Santa Russia’, cristiana da mille anni” . Nelle parole del metropolita di Pietrogrado Vienamin risalta quello che sarà il filo conduttore del volume, che tra la diretta testimonianza di documenti, atti normativi e provvedimenti amministrativi, vuole rendere evidente ciò che ancora per molti non è mai esistito e che è chiaramente reso dalle parole dello storico Nicholas Werth: “Non è mai accaduto nella storia che un intero paese sia diventato un immenso lager con 15 milioni di detenuti dei quali ben 9 milioni assassinati” .
E di questo lager hanno fatto parte i martiti rossi ed i martiri bianchi, ovvero, nelle parole di Reati, coloro che “nel periodo sovietico prebellico [...] non allineati con il regime [...] furono internati nei lager e fucilati” e coloro che “nel periodo postbellico [...] furono discriminati a scuola, sul lavoro e nella vita sociale. [...] Dalla metà degli anni sessanta si fece largo ricorso all’internamento negli ospedali psichiatrici quale mezzo repressivo. I cristiani ritornavano ad essere i “folli in Cristo” per i pagani persecutori. Così oltre al “martirio rosso”, quello del sangue e della fucilazione, nei primi decenni dopo la rivoluzione appare il “martirio bianco” con la privazione delle relazioni umane, la privazione del lavoro, la privazione della libertà” .
Come già evidenziato, il volume si sviluppa secondo una linea cronologica degli eventi, estrapolando dati storico-politici dai documenti normativi ed amministrativi del regime sovietico.
La situazione risulta particolarmente grave quando, consultando il quadro statistico delle persecuzioni in URSS, emergono chiari i dati dell’eccidio: 100 milioni di cittadini russi colpiti dalle repressioni del regime comunista; la Chiesa ortodossa contava prima del 1917 circa 210.000 membri del clero, dal 1917 al 1941 ne furono fucilati 150.000. Nel 1917 i vescovi erano 300, ne furono fucilati 250, gli altri furono arrestati e detenuti nei lager.
Nel 1914 i cattolici erano circa 5 milioni, 27 vescovi e 2194 sacerdoti, 1500 chiese. Dopo il 1917 i cattolici erano forse 2 milioni e mezzo, i vescovi 14, i sacerdoti 1350 e le chiese 600. Dal 1937 al 1941 furono fucilati altri 285 preti. Nel 1941 le chiese erano solo 2, sopravvissute perché appartenenti all’ambasciata francese, un solo vescovo (straniero) e 20 preti liberi, gli altri erano detenuti o erano stati costretti ad emigrare .
Dopo le indicazioni statistiche, che in certo senso introducono crudamente il lettore all’interno del quadro storico, l’Autore inizia la vera e propria trattazione storica, rimanendo sempre a diretto contatto con l’intera documentazione in suo possesso.
Nell’articolazione del volume si susseguono, dunque, le tappe fondamentali relative all’oppressione ed alla soppressione della Chiesa cattolica, a partire dal primo momento bolscevico, che nonostante avesse suscitato la speranza che “il potere sovietico, incline a promuovere il bene dei lavoratori, non avrebbe oppresso la chiesa perseguitata da sempre in Russia [...] ben presto mostrò i suoi umori antireligiosi. Prendendo ispirazione dal pensiero marxista, secondo il quale la religione è una espressione sovrastrutturale (dunque una menzogna) della base economica, V. I. Lenin riteneva possibile farla finita con la Chiesa solo con la soppressione delle sue proprietà” .
Venne istituita la “Commissione per la liquidazione dei beni ecclesiastici” e i sacerdoti cattolici divennero cittadini senza diritti civili .
Ben presto si passò al “sequestro dei beni preziosi delle Chiese in uso (si noti la espressione: ‘in uso’) alle comunità dei credenti. Il papa romano si dichiarò disposto ad acquistare gli oggetti preziosi riservati al culto sacro e gli stessi fedeli erano pronti a trovare il denaro a questo scopo e a mettere a disposizione i loro beni personali, pur di non permettere la profanazione di questi oggetti. Le autorità sovietiche non ebbero rispetto dei sentimenti dei credenti e dettero ordine di procedere” . A tutto ciò seguì un’altra, nuova, ondata di arresti e processi contro i capi della Chiesa, che furono condannati e fucilati, perché “la religione era un fenomeno ostile al potere sovietico e legata al passato oscurantista. La religione andava sradicata, una volta per sempre, anche con misure estreme se necessario” .
Pertanto e a questo scopo ebbe origine la propaganda atea, portata avanti da Emelian Vladimir Iaroslavskij che fondò la “Lega dei senza-Dio”, strettamente legata alle strutture dello stato e della polizia segreta. Tra gli strumenti più originali, l’Autore evidenzia la creazione di un diffuso lessico ateo, nuovo per la Russia. In sostituzione della parola “religione” si usava la parola “pregiudizio”, “fanatismo religioso”, “ideologia religiosa”. Il concetto di “fede” veniva sostituito dalle parole “superstizione”, “ignoranza”, “arretratezza”, “pensiero reazionario”. Per liberare i giovani dai pregiudizi religiosi, il regime comunista ingaggiò una lotta feroce contro la famiglia e la sua stabilità. La famiglia fu definita come forma fondamentale di schiavitù e sia il divorzio che l’aborto divennero leggi dello stato sovietico facilmente ottenibile l’uno e facilmente attuabile l’altro .
L’indagine e l’analisi storica segue attraversando vari momenti, dal periodo precedente alla Seconda Guerra Mondiale, - come si è visto, caratterizzato dalla volontà forte e decisa di eliminare e distruggere la Chiesa, con provvedimenti legislativi, morali, psicologici e fisici -, al periodo bellico, in cui il destino dei cattolici è legato alla tormenta della guerra, ed al periodo postbellico con le repressioni nei vari paesi sottoposti al controllo sovietico, con l’eliminazione anche della Chiesa greco-ortodossa, con le deportazioni e i campi di concentramento. Fino ai recenti anni ottanta, in cui finalmente la violenza della repressione in Unione Sovietica si allentò, grazie anche alla distensione tra Est ed Ovest ed all’azione dei movimenti popolari per i diritti civili attivi nelle repubbliche popolari dell’Europa Orientale . E fino al 2 dicembre del 1989, giorno in cui “Gorbacev fu ricevuto in Vaticano da papa Giovanni Paolo II [... ed al 24 dicembre quando] incontrò il patriarca russo Pimen. [...] Il primo di ottobre del 1990 il “Soviet Supremo” approvò la nuova legge sulla libertà di coscienza e delle organizzazione religiose: essa ribadiva la eguaglianza dei cittadini di fronte allo stato indipendentemente dalle loro convinzioni religiose e quindi la libertà di scegliere e praticare la religione secondo la propria coscienza” .
Ma l’essere liberi di praticare la propria religione, sottintende ed obbliga necessariamente ad una ricerca storica seria, precisa, dettagliata, che può vedere l’incipit in un libro come questo e che dev’essere proseguita con serietà d’indagine e libertà di coscienza, soprattutto in memoria di tutte quelle persone che per tale libertà hanno perso e dato la vita e a cui è doveroso rendere almeno la voce del ricordo.
Alla luce di tutto lo svolgimento del saggio, ritorna, più chiaro, ancora più evidente, il proposito che l’Autore dichiara nell’Introduzione: “Negli scritti lasciati da molte vittime traspare l’ansiosa domanda se qualcuno mai sarebbe venuto a sapere ciò che realmente accadeva nell’ombra, nei lager situati nelle immense e inaccessibili steppe della Siberia; se qualcuno mai sarebbe stato capace di districare la verità dalla menzogna. Questo è l’intento del mio libro, scritto affinché “tutta la verità sia detta, poiché chi nasconde una verità scomoda, seppure in parte, è complice degli assassini” (Max Horkheimer)” .

Roberta Fidanzia

Fiorenzo Emilio Reati, Dio dirà l’ultima parola. La persecuzione della Chiesa cattolica in Russia in epoca sovietica, Arca Edizioni, 2003, pp. 110, ISBN 88-88203-12-5, € 10.00.
Roberta Fidanzia

Recensioni, Storia

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In Adriatico nell’Antichità e nell’Alto Medioevo

martedì novembre 28, 2006

Luigi Tomaz, In Adriatico nell’Antichità e nell’Alto Medioevo


In Adriatico nell’Antichità e nell’Alto Medioevo è il titolo dell’impegnativo volume di Luigi Tomaz, che nasce, come dallo stesso Autore dichiarato, dall’esigenza di raccontare la verità storica delle terre adriatiche, quelle terre che per tanti Italiani hanno significato la vita, ma più ancora la propria dignità e l’amor di patria uniti a tanto dolore e profonda nostalgia per averle dovute lasciare in nome di ideali più grandi ed importanti: la democrazia e la libertà. Queste terre ancora oggi rappresentano, nella memoria di istriani, fiumani e dalmati, una radice che non può essere recisa; anzi questa radice chiede con forza di essere piantata nuovamente nella coscienza della patria cui appartiene. Quella patria del cuore che anche il famoso scrittore Lucio D’Ambra, romano di nascita, cittadino di Abbazia per adozione, nomina nel suo romanzo dedicato a questa splendida cittadina rivierasca, una patria che richiede cura e dedizione affinché non si spenga la tenue fiamma del suo ricordo.
La memoria, la storia, la verità, sono, o dovrebbero essere, lo scopo di ogni storico. Tomaz non si ritiene storico, o per lo meno lascia intendere di non avere “i gradi sul berretto” per definirsi professionista della Storia e, forse, è proprio questa sua caratteristica a renderlo libero di scrivere la Storia. Anche il Prof. Arnaldo Mauri, che ha curato la presentazione del volume e che – si evince chiaramente dalle sue parole – se ne è fatto trasportare e coinvolgere razionalmente, sentimentalmente e, si può azzardare, anche ‘fisicamente’, nel riconoscere la passione morale di Tomaz, rende perfettamente merito alla scientificità e professionalità del suo lavoro. Infatti, anche ad una prima lettura superficiale del volume, si capisce perfettamente che la sua dovizia di particolari unita alla testimonianza di abbondantissime fonti, fanno di questo lavoro un’opera quanto meno meritoria e, soprattutto, necessaria nell’odierno panorama editoriale.
L’Autore non è nuovo a queste tematiche, anzi è ben noto ai ‘cultori della materia’ per le sue approfondite e circostanziate ricerche storiche: Le Chiese Minori di Cherso, Le quattro giornate di Cherso 12-15 giugno 1797 in difesa del Gonfalone di San Marco, La Galìa Chersana: un’isola e la sua Galea per sei secoli nell’Armata di San Marco, sono solo alcuni dei suoi titoli dedicati alla storia istriana e dalmata. Forse perché esule, forse perché originario di quelle terre cui si nega ogni assonanza culturale all’Italia, Tomaz sente come esigenza primaria, “intima”, quella di “cercare e raccontare quanto chi avrebbe il dovere di farlo non fa”.
Nell’Introduzione al libro egli si richiama all’insegnamento ricevuto dai Maestri di scuola, della scuola che ancora riteneva la sua missione “educativa ai grandi ideali” e non, con qualche felice eccezione, sostanziale ‘parcheggio’ di alunni indisciplinati ed arroganti, che usano gli ‘ideali’ per proprio tornaconto.
E dal ricordo di Tomaz emergono delle immagini vivide e vive: “l’arrivo del doge Pietro Orseolo con cento navi splendenti di armati e di vessilli, in una data tonda tonda, che un ragazzo non dimentica: l’anno mille”. Scrive: “Il mio maestro ci insegnava che proprio in seguito all’arrivo del doge noi parlavamo il nostro dialetto che era veneto e che tale era divenuto durante sette lunghi secoli evolvendosi dall’originaria parlata neolatina nella quale l’istriano antico, che ancora non è estinto, s’incontrava col dalmatico che nella vicina isola di Veglia aveva ceduto definitivamente al veneto ai tempi dei nostri nonni. Più tardi nel De Vulgari eloquentia trovai che Dante, setacciando i parlari italici, aveva posto nel crivello sia quello degli Aquilegienses, sia quello degli Yistriani che qualcuno poi ha voluto chiamare istrioto”. E dal ricordo personale l’Autore arriva diritto al cuore della storia e della storiografia. Perché le invasioni barbariche sono definite dalle storiografie slavo-germaniche “movimenti dei popoli”? E la storia prima dell’anno Mille? L’insediamento romano, la cultura latina, l’economia marittima negli scambi con l’altra sponda adriatica? Sono domande alle quali l’Autore risponde con sapienza e tecnica storica e per le quali dà qualche anticipazione nelle sue prime pagine. “Quando Roma, con guerre interminabili, stava affrontando i popoli etruschi, latini, italici e greci che la circondavano sul versante occidentale della penisola appenninica, l’Adriatico era un mare illirico, etrusco, italico e greco lungo l’una e l’altra delle sue sponde parallele affacciate sull’ampio canale che porta il Mediterraneo verso il centro dell’Europa”. Ed ecco una situazione ben definita: un incrocio di popoli, un incontro di culture, uno scambio di economie. Questo era l’Adriatico sin dal VI secolo a.C.
Il Volume si snoda, successivamente, attraverso quindici secoli di storia e passando dalla storia dell’Impero romano ai primi martiri cristiani adriatici, da Carlo Magno alla nascita di Venezia, dalle razzie slave al pericolo saraceno, dalla divisione tra Oriente ed Occidente all’arrivo del Doge Orseolo ed alla sua importante funzione storico-politica nella pacificazione e nella definitiva unione con Venezia, porta il lettore e lo studioso al cuore della storia dell’Adriatico.
Ed è proprio l’appartenenza alla cultura latino-veneta ad essere l’oggetto ed il soggetto del testo e della storia dell’Adriatico orientale. E si ritorna al concetto di partenza: la comune radice culturale, identitaria che non può e non deve essere rimossa. Come la filosofa Simone Weil, che esprimeva nelle sue bellissime pagine il dolore dello sradicamento, il male morale del distacco da un’appartenenza, il malheur di vivere lontano dalle proprie cose, intese nel senso di abitudini, immagini, paesaggi, voci e rumori, così anche in un testo storico di indubbio valore, si può leggere tra le righe della ferma volontà di raccontare la storia attraverso documenti, che a volte possono sembrare aridi e freddi, il calore e la passione verso la verità e verso le proprie origini. Il bisogno di manifestare e di sfogare la propria cultura, la propria identità, sono ancora più evidenti nel riportare in appendice documenti antichi e medievali, fotografie di reperti archeologici, di monete, di archi romani e di chiese medievali di chiara manifattura ed architettura italica, o meglio latino-veneta, che oltre a rendere più valido ed apprezzato il lavoro scientifico, gli rendono anche il giusto merito dal punto di vista sociale e morale.

Roberta Fidanzia
Roberta Fidanzia

Recensioni, Medioevo

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Europa Sacra

lunedì novembre 27, 2006

Europa Sacra. Raccolte agiografiche e identità politiche in Europa fra Medioevo ed Età moderna, a cura di Sofia Boesch Gajano e di Raimondo Michetti.


Il volume Europa Sacra. Raccolte agiografiche e identità politiche in Europa fra Medioevo ed Età moderna, uscito per i tipi della Carocci, a cura di Sofia Boesch Gajano e di Raimondo Michetti, vuole rappresentare “un contributo alla storia della costruzione dell’Europa a partire dal versante della storia religiosa, considerata nei rapporti con la storia delle istituzioni, della società e della cultura” .
L’obiettivo, sicuramente ben realizzato, è quello di sottolineare l’importanza delle raccolte agiografiche medievali e moderne nell’ambito della ricostruzione della storia d’Europa, in quanto, proprio per le loro caratteristiche, offrono un esempio molto particolare di scrittura storica e “si pongono dunque su un terreno di confine tra una molteplicità di forma di indagine per la conoscenza della cultura storica fra Medioevo e Età Moderna” .
Il volume si articola in una serie di saggi, in varie lingue europee, organizzati in tre sezioni distinte: La sacralizzazione del territorio; Scritture agiografiche e culture religiose; Bilanci e prospettive.
Nella prima parte sono riportati studi specifici dei vari territori europei, quelli che poi si sono trasformati, secondo modalità e tempi differenti l’uno dall’altro, negli stati nazionali europei. Si passa, dunque, dal territorio di Brabante, in Belgio, del XV secolo, all’Irlanda del XVI e XVII secolo, dalla Spagna, alla Polonia, dall’Italia al Portogallo. Le compilazioni agiografiche sono, così, analizzate dal punto di vista del territorio, ma allo stesso tempo lasciano trapelare dai loro resoconti un comune modo di sentire religioso, che li unifica, quasi, in un’unica appartenenza culturale.
Gli studi contenuti nella prima parte del volume offrono la possibilità di riflettere sul livello di legittimazione del potere politico, legittimazione che può derivare proprio dall’idea di ’chiamare’ i santi a sostegno di un progetto “politico-culturale di un principe, di una famiglia nobiliare o comunque di un’autorità laica” . In questo senso le raccolte agiografiche forniscono materiale su cui riflettere e da indagare relativamente alla “nascita ed alla natura [...] dello Stato moderno, e, più in generale, ai processi di formazione degli Stati europei e alla formazione delle identità nazionali” .
La seconda parte del volume riporta, rielaborate e commentate, una serie di fonti agiografiche, spesso poco o per nulla note, al fine di trarne delle indicazioni relativamente al ruolo che la produzione agiografica ha svolto “all’interno di una più generale storia della cultura dell’età moderna” . Da questa indagine si evince la necessità per gli storici dell’epoca di una “certificazione storica e filologica [...] che assume caratteri peculiari all’interno di una produzione agiografica, proprio perché l’accertamento della verità agiografica deve coniugare in modo diretto la fedeltà al dato sovrannaturale, ispirato dalla fede, e l’impiego del dato storico, collegato con l’affidabilità del documento” .
La terza ed ultima parte del volume contiene due saggi conclusivi che, se da una parte tendono a proporre una visione complessiva del fenomeno ’agiografia come propaganda religioso-culturale’, offrono la possibilità di riflettere sulle possibili prospettive d’indagine che possono nascere da un’esperienza di studio diretta sulle fonti agiografiche.
Il volume, nella sua struttura e nei suoi sviluppi, sembra quasi voler rispondere alla domanda che Federico Chabod poneva nel suo saggio Storia dell’idea di Europa: “come e quando i nostri avi [hanno] acquistato la coscienza di essere europei” . Con i dovuti accorgimenti, si può, in un certo senso, sostenere che il tentativo di rintracciare nella ’sacralità’ dell’Europa il fondamento dell’identità europea sovranazionale, non contrasta con l’indagine di Chabod relativa all’idea di Europa. In molti punti, come relativamente al concetto medievale di christianitas che non coincide con quello di Europa , i due volumi si trovano a percorrere un sentiero quasi parallelo. Segno, questo, della sempre presente necessità d’indagare le radici della nostra identità nazionale e sovranazionale culturale europea. Il sentirsi europei, nelle forme prettamente religiose e cultuali (relative al culto) evidenziate in questo volume, non contrasta con il sentire nazionale. Riecheggiano, in quest’interpretazione, le parole di Jacques Le Goff: l’esperienza spirituale cristiana è stata trait d’union tra le varie nazioni europee. Il primo abbozzo dell’Europa, secondo il medievista, si è fondato su una duplice base: la diversificazione tra i vari popoli e regni fondati su tradizioni diverse tra loro e la cristianità, elemento comune e fondante, che modellava ed uniformava la religione e la cultura dei diversi popoli europei. In tal modo, fin dalle sue origini, l’Europa dimostra che l’unità può nascere dalla diversità delle nazioni .
La chiave di lettura interpretativa si trova nel titolo Europa Sacra ed il significato della sua scelta da parte dei curatori è esplicitata nell’introduzione: “L’Europa su cui ci interroghiamo è sacra [...] per sottolineare che il riconoscimento di tale fattore unificante non può essere ovattato dentro il contenitore ideologico-confessionale di un’Europa cristiana, né deve contribuire ad un’idea astratta ed ideale di un’Europa in divenire, che esisteva e va riscoperta, contribuendo, invece, a dischiudere anche la varietà dei percorsi cultuali, la polivalenza dei significati culturali, le metamorfosi che attengono alla storia della dimensione del sacro, così come è stata indagata nell’ambito della ricerca storico-religiosa e antropologica d’età contemporanea” .
Nonostante l’ambiguità del titolo del volume e dei suoi contenuti, ambiguità che rispecchia “l’esistenza e i termini di una dialettica tra universalità e regionalismi” , in conclusione, il volume riassume in sé e rappresenta quell’idea di Europa, che nasce nei secoli conclusivi del Medioevo, e che vede l’affermarsi delle prime istanze di una convinta appartenenza dei singoli popoli europei “ad un più vasto popolo degli europei” .

Roberta Fidanzia

Europa Sacra. Raccolte agiografiche e identità politiche in Europa fra Medioevo ed Età moderna, a cura di Sofia Boesch Gajano e di Raimondo Michetti, Carocci, 2002, pp. 432, ISBN 88-430-2377-2, Euro 26,40.
Roberta Fidanzia

Recensioni, Medioevo

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Franco Cardini, Giovanna d’Arco

mercoledì novembre 22, 2006

La necessità e la volontà di elaborare una Carta Costituzionale Europea hanno portato come conseguenza quella di evidenziare i fondamenti ideali dell’Europa radicati nella storia, nella cultura e nella religione. Proprio su quest’ultima si basa il dibattito politico attuale: inserire o meno nella Carta Europea un richiamo ai principi religiosi cristiani come base dell’unità culturale, storica e politica dell’Europa. È fuori da ogni dubbio che l’Europa medievale sia stata un’Europa cristiana e che il Medioevo italiano ed europeo sia stato un Medioevo Cristiano, come si evince dal significativo titolo di un’opera di grande rilievo del noto medievista Raffaello Morghen. E proprio in quest’ottica europeista s’inserisce l’interpretazione dell’Europa medievale di Franco Cardini. Nelle pagine del primo capitolo, La mia Giovanna, del libro dedicato a Giovanna d’Arco, l’Autore spiega come, partendo dalla passione giovanile, poi professionale e storica, per l’affascinante Pulzella d’Orléans, sia giunto ad una “delle poche convinzioni chiare e nette delle quali possa vantarmi: il mio deciso e rigoroso europeismo, il mio sentirmi sempre e prima di tutto – a livello civico non meno che culturale – un cittadino d’Europa” (pag. 9), passando dallo studio dell’avversario più acerrimo di Giovanna, Filippo il Buono duca di Borgogna. “E il ducato di Borgogna fra Tre e Quattrocento – con quel suo impiantarsi così fascinoso al confine tra Francia e Germania, con quel suo estendersi dall’Olanda alla Svizzera, con quella sua politica dei grandi orizzonti che andava dalla Spagna all’Italia fino ai bordi dell’Asia – mi sembrava rappresentare idealmente e perfettamente una specie di compendio anticipato d’Europa” (pag. 9).
Quest’Europa è lo scenario sul quale vive, si muove e muore la protagonista di una delle più affascinanti vicende del tardo medioevo, la “pulzella” Giovanna d’Arco.
Cardini, iniziando la sua trattazione dalla definizione della forma più probabile del suo nome – Jeannette Tart, data la pronuncia “dura del francese parlato tra Vosgi e Lorena” (pag. 11) -, descrive la figura moderna di questa donna sospesa tra la Chiesa e l’eresia, tra l’identità francese e la marginalità della sua regione natale, tra l’orgoglio di una femminile verginità, valore profondamente cristiano, e la rivendicazione del ruolo femminile nella società unito al contraddittorio rifiuto per gli abiti femminili, tra la fragilità fisica unita alla fermezza della fede religiosa e la forza morale e fisica per sostenere la guerra, contro una “fede ispirata alla pace e alla carità come la cristiana” (pag. 11).
È proprio dall’insieme di queste contraddizioni, forse solo apparenti, che emerge il profilo moderno ed affascinante di Giovanna.
L’Autore, che non nasconde la sua passione per la giovane donna di Francia, racconta la sua vita ed il suo personaggio con elegante abilità letteraria e regala al lettore un’immagine vivida e viva di Giovanna, come nel momento in cui ne narra l’inizio del trionfo: “la notizia dell’arrivo di Giovanna e delle sue profezie si era sparsa rapidamente, e dentro le mura la si accolse come una liberatrice. Il suo ingresso fu trionfale: incedeva come i santi guerrieri delle apparizioni su un grande cavallo bianco, chiusa nella risplendente armatura nuova, impugnando lo stendardo candido e seguita dal ‘Bastardo d’Orléans’ [...]. La gente si accalcava intorno alla Pulzella, felice di riuscire a toccarne le armi o il cavallo. Giovanna inviò [...] tre lettere di sfida agli inglesi: si trattava di missive perentorie nelle quali la sicurezza del mandato divino sonava come superba sicurezza, ma che erano tuttavia accompagnate – un apparente paradosso – anche da espressioni umili e quasi imploranti. Sgombrassero subito il campo, nel nome del Signore, secondo la Sua volontà. Gli inglesi risposero immediatamente e con insolenza: i due massimi titoli d’onore della Pulzella, il rapporto con le «voci» e la verginità, per loro erano sinonimi di «strega» e «puttana»; dal ponte essa ebbe uno scambio piuttosto brutale d’invettive col capitano inglese Glasdale, da lei chiamato per dileggio Glacidas, una parola che ricordava il gracidar delle rane. Quest’ultima idea poteva esserle venuta in mente dal contesto fluviale in cui si svolse il dialogo-sfida: ma sta di fatto che, di lì a poco, Glasdale sarebbe morto proprio annegando nel fiume, tirato in acqua dalle sue armi. Si disse più tardi che la Pulzella gli avesse predetto quella fine: il che contribuì da parte dei suoi sostenitori alla sua fama di profetessa, in campo avverso a quella di strega” (pag. 55).
Ecco, dunque, la Giovanna di Cardini vivere nuovamente la sua avventura terrena, trionfante e quasi spavalda, con attitudini non comuni per una giovane donna del tardo medioevo. La Pulzella combatte, si ferisce più volte, attacca e sconfingge le fortezze inglesi. È una “Giovanna cavaliere [e] quello era il suo bel maggio di gloria”.
Nella personalità di Giovanna ricorrono con vigore, oltre l’importante tema della guerra, i temi della regalità sacra. La Pulzella, infatti, dopo le prime vittorie contro gli inglesi, guidata dalle «voci», insiste sulla cerimonia di unzione del delfino. Cerimonia non necessaria dal punto di vista giuridico, bensì importante dal punto di vista sacro-popolare. Appare, quindi, il fondamentale motivo della religione popolare, dei riti popolari, quasi superstiziosi. E Cardini collega, in un certo senso come Jacques Le Goff, il sentimento della religiosità, della regalità sacra, a quello dell’identità nazionale. Con una fondamentale differenza: Le Goff si riferisce all’idea europea; Cardini a quella nazionale. Infatti, il primo abbozzo dell’Europa, secondo l’interpretazione di Le Goff, si è fondato su una duplice base: la diversificazione tra i vari popoli e regni fondati su tradizioni diverse tra loro e la cristianità, elemento comune e fondante, che modellava ed uniformava la religione e la cultura dei diversi popoli europei. In questo modo, sempre secondo lo storico francese, fin dalle sue origini l’Europa dimostra che l’unità può nascere dalla diversità delle nazioni.
Dal canto suo Cardini pone l’accento sul sentimento nazionale e sull’identità cristiana europea: “La mistica della regalità sacra era strettamente connessa, in Giovanna, a quella della nazione francese. Il sentimento nazionale, nel senso moderno del termine, ha senza dubbio radici medievali: nel pieno del XII secolo l’Europa, come luogo delle identità e delle diversità, aveva cominciato a disegnarsi nelle sue variabili all’interno del complesso unitario del corpus christianorum, della sancta Romana res publica, della cristianità latina” (pag. 58). Sotto la stessa cristianità le croci francese e inglese, l’una bianca e l’altra rossa, si fronteggiano e contrappongono.
In tal modo la Pulzella, una volta fatta prigioniera dagli inglesi, diviene l’obiettivo da distruggere per distruggere i francesi. “La questione era [...] politica: giudici e assessori erano tutti legati con certezza – sia pur non in egual misura – alla causa anglo-borgognona, e il loro scopo ultimo era colpire irrimediabilmente la credibilità e la rispettabilità del «re di Bourges». Una volta provato che l’autentica, sostanziale e principale protagonista e promotrice dell’incoronazione di Carlo VII a Reims era un’eretica, la reputazione di questi e della sua corona sarebbe stata compromessa per sempre” (pag. 92).
Il confronto tra Giovanna e i suoi giudici era sicuramente impari, nonostante la sicurezza che Dio fosse con lei, il che diminuiva, da parte sua, il senso di paura nei confronti dei teologi inquisitori che le si presentavano di fronte, mentre “essi provavano forse di fronte a lei, pur nascondendolo, qualcosa di simile ad un sentimento di ammirazione per certi versi, di paura per certi altri” (pag. 99). Il duello fra Giovanna ed i suoi giudici è il “duello fra il carisma e le istituzioni; tra l’impetuosa energia profetica di chi si sente direttamente investito da una missione divina e la ferma coscienza di chi gli contrappone le norme e gli argini stabiliti dalle regole teologiche, da quelle gerarchiche, da quelle giudiriche; tra le ragioni di chi sente d’aver ricevuto una chiamata e le ragioni di chi ritiene che non vi sia chiamata che non vada sottoposta alla disciplina delle mediazioni e delle verifiche” (pag. 99).
Fu proprio questo ‘diretto’ contatto con le «voci» a fungere da arma contro di lei, soprattutto nei momenti in cui Giovanna si era trovata in contrasto con esse. “A Melun, una volta annunziatale la cattura, aveva sentito di preferire la morte alla prigionia; a Beaurevoir aveva tentato una fuga che l’avrebbe messa al riparo da un amaro calice che le «voci» le avevano annunziato e che essa non si sentiva di bere fino alla feccia. Superba davanti alla Chiesa nel nome delle «voci», si era rivelata poi disobbediente anche dinanzi ad esse” (pag. 114).
E da questo momento prende avvio l’epilogo dell’avventura terrena di Giovanna. L’Autore, riportando ogni documento, narra con dovizia di particolari ogni istante del processo rivolto alla Pulzella. Fino alla tragica conclusione: il rogo di Rouen del 30 maggio 1431.
Da quel momento è nato il mito di Giovanna d’Arco: già prima della sua morte e sin d’allora, Giovanna la Pulzella è stata oggetto di studio, a volte o spesso non scientificamente storico, è stata creduta e interpretata come “eroina catto-nazionalista «di destra» o femminista-contestataria e magari cripto-omosessuale «di sinistra»” (pag. 166).
Cardini, dando pieno sfogo alla sua preparazione storica, non meno che filosofica, appassionata, conclude, forse un po’ amaramente, con queste parole: “Giovanna come fonte inesauribile d’ispirazione: bambina e soldato, donna e martire, profetessa e visionaria, devota e ribelle, patriota e santa. Cose che, tutte, si possono interpretare alla luce dell’et-et o dell’aut-aut: e questa è un’ulteriore ambiguità, un’ulteriore provocazione. Una donna per tutte le stagioni” (pag. 167).

Roberta Fidanzia


Franco Cardini, Giovanna d’Arco, Mondadori.
Roberta Fidanzia

Recensioni, Medioevo

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