Vai ai Contenuti - Go to content Vai alla Navigazione - Go to navigation Vai alla Ricerca - Go to search
AGENSU :: Agenzia d'informazione telematica per la storia e le Scienze Umane

Il “Romanzo di Abbazia” di Lucio D’Ambra (Parte 3)

venerdì dicembre 29, 2006

Nell’intermezzo, che si apre con un rapido, ma coinvolgente, sguardo sulla Prima Guerra Mondiale, i protagonisti sono i due fratelli Zuccarin, ormai adulti e soldati.
Dal comando austriaco di Fiume viene segnalata al comando di Abbazia la presenza di un aereo nemico, italiano, con due aviatori a bordo. Scattano le misure di sicurezza. L’aereo è in difficoltà - sembra quasi di vederlo nella descrizione che ne fa D’Ambra, suggestionato sicuramente dalle imprese eroiche del D’Annunzio e del Balbo e dalla grande importanza che a quell’epoca - anni ’30 - si dava a questo nuovo mezzo di trasporto ed alle sue potenzialità belliche -, è costretto ad atterrare in un largo campo sotto al vecchio Rifugio Stephanie, un tempo nido d’amore degli arciduchi, ora trasformato in torretta di controllo di supporto al tiro degli antiaerei.
Uno dei due per cercare di riparare in volo il velivolo, cade ed annega nel mare Adriatico. L’altro, sotto falsa identità, si consegna agli austriaci come prigioniero per essere giudicato e condannato.
L’incontro-scontro tra i due fratelli, Rodolfo e Jacopo, è descritto magistralmente da D’Ambra nel momento dell’intervento di un comandante, che farà precipitare la situazione verso il riconoscimento del prigioniero. È Jacopo a parlare: «Sì., sì, suo fratello, suo fratello di sangue, solo di sangue, perché abbiamo avuto, e sembra incredibile, la stessa madre e il medesimo padre, ma non suo fratello d’anima, di coscienza, di responsabilità… Basta confrontarci fisicamente per vedere quanto mai siamo diversi, dentro come fuori: io son massiccio, quadrato, forte, un maschio che sa bene quello che vuole e sempre lo fa; lui pallido, esangue, soldato inadatto ai servizii di guerra, coi nervi da femmina, incerto d’ogni sua volontà, incapace di qualunque energia. Io mi chiamo Jacopo, un bel nome, veneziano, italiano, che viene dai grandi signori veneti, discendenza di Dogi, che furono gli avi di mia madre, una Loredano. E lui ha invece un nome di cortigianeria, di viltà servile, Rodolfo, il nome dell’Arciduca ereditario d’Austria, messo da mio padre per adulare i nuovi padroni l’anno in cui mio fratello venne al mondo che era l’anno del lutto di Corte per il romantico e imbelle suicidio del Kronprinz. Italiano in esilio, nato qui ad Abbazia, ma da sangue italiano, io non ho mai pensato un istante di poter rinnegare il mio Paese per il vostro. Tenuto in casa da mia madre, son rimasto qui fin quando mi si è posto davanti l’obbligo di scegliere, soldato, il mio esercito. E allora ho scelto; e sono andato dall’altra parte, con gli Italiani. Ma lui no. E a nulla m’è valso beffarlo, pungerlo nell’amor proprio, schiaffeggiarlo di continuo nella coscienza addormentata per ridestargliela. A nulla m’è servito scrivergli, parlargli, fargli parlare, dargli continuo il mio esempio. A vent’anni ha piegato il collo allo straniero, s’è messo sotto il giogo del nemico. Ed eccolo qui, Rodolfo Zuccarin: a metter la sua mano d’austriaco sopra suo fratello italiano, a tener bordone, lui nipote e pronipote di veneziani e di milanesi che odiarono l’Austria, eccolo a tener bordone agli sbirri di Francesco Giuseppe, l’Imperatore degli impiccati!»
Jacopo, il prigioniero, coraggioso, fiero e spavaldo non esita a professare, quasi urlando, i suoi sentimenti italiani di fronte al comando austriaco e di fronte al fratello, Rodolfo, che luogotenente dell’esercito nemico, aveva tentato invano di coprirlo nascondendo le sue vere generalità. Ma questo non è sufficiente per Jacopo, che accusato il fratello di disertare la sua vera patria ed offeso l’imperatore Francesco Giuseppe, viene condannato alla pena capitale.
Proprio in questo tragico momento il pavido Rodolfo, che da sempre aveva nutrito una segreta ammirazione per quel fratello coraggioso e forte, dopo quasi un’intera notte di vagabondaggio tra un locale ed un altro in cerca di un piano perfetto, decide di compiere il gesto più coraggioso della sua vita ed aiuta Jacopo ad evadere.
Con quest’azione, e con il riavvicinamento dei due fratelli divisi tra due patrie, si conclude il veloce intermezzo, lasciando intendere il corso degli eventi, che il secondo tempo riprenderà a narrare alla distanza temporale di quasi dieci anni, facendo incontrare al lettore gli stessi personaggi notevolmente cambiati poiché cambiato è il paesaggio che ospita le loro vite.
Si trova, infatti, uno Jacopo Zuccarin, avvocato felicemente sposato ed in piena attività politica, che gode della ritrovata italianità della sua terra di Abbazia, tolta agli austriaci a seguito della vittoria italiana nella I Guerra Mondiale.
E splendida è la descrizione che D’Ambra fa del panorama istriano: «Arrivati lassú [sul Monte Maggiore], il prodigioso spettacolo fu davanti a loro: il golfo del Carnaro con Volosca, Abbazia e Laurana di lassú nascoste tra i lauri e gli oleandri, con Fiume tutta palese al sole nei suoi bei palazzi bianchi che s’arrampicavano su per le carsiche colline, con le tre isole mollemente distese, Cherso, Veglia e Lussino, due italiane, una no. […] Cadeva il sole, alle loro spalle, invisibile dall’altra parte dell’Istria. Chiuso dalle tre isole che sembravano toccarsi, sebbene l’invisibile e liquido confine politico dividesse nell’azzurro Cherso da Veglia isole sorelle, il Carnaro sembrava di lassú un grande lago tranquillo. Abbazia e Laurana, spiagge fiorite con le loro grazie mondane d’un Novecento pittoresco e gradevole senza spavalde aggressioni, erano nascoste sotto il monte. Il sole scomparso era ancóra, nel riflesso, su la costa fiumana, dicendole addio con un’ultima nebbia d’oro. E, miracoloso giuoco di luce, la montagna adesso riempiva il mare e vi si specchiava dentro disegnando e gonfiando su dalle onde tranquille la sua sagoma fiera; talché il Carnaro azzurro non sembrava più contenere nelle sue sponde mobili acque, ma la massa ferma d’una montagna su cui s’accendevano, avvisaglie luminose della notte, le prime finestre. [...] Ma di lassú, solitaria come il romito della montagna, la luna apparsa nel cielo stellato aveva l’aria di guardare con aria scorata e lontana tutte le piccole luci dei dancings che annullavano, senza più poeti ed amanti, quella sua magica luce […] Ma una terza luce – tra lampadine e luna – splendeva sul Carnaro davanti agli occhi di Jacopo Zuccarin e gli entrava nell’anima […] Era la luce sacra delle aree votive che qua e là splendevano sopra alle colline addormentate ammantellandosi dentro le ombre. Jacopo indicò con la mano alle sue donne [la moglie e la madre] quella luce delle are poste a ricordo degli Eroi che fecero alla patria non dimentica il dono di queste ritornate terre».
Nella visione dell’autore nelle terre istriane tutto è musica, è poesia che egli riesce ad esprimere felicemente. In questo contesto Jacopo Zuccarin avrà l’occasione di aiutare il fratello Rodolfo, ricambiandogli, in un certo senso, il favore di tanti anni prima.
Quasi fosse il suo nome a condannare la sua vita, o meglio, il suo amore per una bella donna austriaca, Rodolfo, per l’incontro fortuito con quello che durante la guerra era stato il suo superiore, vede rinfacciato al futuro suocero il suo gesto di amore fraterno come un gesto di alto tradimento della patria d’Austria, soffrendo così l’imposizione del divieto di sposare la sua amata Carlotta. E, in un impeto di vigliaccheria, anche questo in un certo modo retaggio del suo nome, quasi avesse lo stesso destino di colui al quale era stato ispirato, mostra al fratello tutta la sua rabbia per dover ora pagare lo scotto di averlo salvato. Ma Jacopo è un avvocato e, dopo un certo sgomento per la reazione del fratello, con abile maestria e non senza un aiuto soprannaturale, riesce ad accomodare la questione. Infatti, per un breve istante, una notte per l’esattezza, ritorna di scena l’antico aggiustatore, Arrange-tout, che comparendo in sogno ad Isabella, della quale si rivela un po’ innamorato, la consola della sua preoccupazione dandole, come ha sempre fatto per il suo Imperatore, il giusto consiglio.
«Le cose dell’amore sono sempre le più facili ad accomodarsi, e non v’hanno amanti contrastati che alla fine non raggiungano la felicità. L’amore insegna a combattere e a resistere. E non vi sono resistenze e combattimenti che non conducano a finale vittoria. Voglio dirvi, questa notte, una cosa, che non v’ho forse mai detta nei nostri lunghi colloquii a Mon Repos: l’arciduca Rodolfo s’è ucciso troppo presto. Credo che se non avesse ceduto, mio povero principe, a un primo e folle sgomento, anche Rodolfo d’Asburgo e Maria Vécsera avrebbero avuto ragione del mio pur implacabile Imperatore. Figurarsi come tutto sarà più facile per il vostro piccolo Rodolfo e per la sua Carlotta. Ce n’est rien, madame… Ce n’est rien…[…] Ho una vaga idea, madame Zuccarin, che sia per rientrare in scena, un po’ invecchiato, come me, come voi, un personaggio che per lungo tempo fu protagonista delle vostre vicende e che voi avete lasciato, da un bel pezzo, completamente in disparte. Guardate nella vostra parete le varie fotografie dell’arciduca Franz. Da ogni suo ritratto – a venti, a trenta, a quarant’anni o a cinquanta, egli volge sempre gli occhi verso di voi e sembra amorosamente guardarvi. […] So dunque benissimo che quegli occhi di vecchio Arciduca sono ancóra pieni d’amore, come in quella lontana notte di carnevale quando, sul far dell’alba, un ragazzo di venti anni vi disse arrivederci senza voler neppure pensare che potesse anche essere un addio. Neanche io ebbi più l’onore di rivedere, da quella notte, l’arciduca Franz. Non potei quindi sapere mai che cosa egli pensasse d’un secondo figliuolo nato a voi solamente sette mesi dopo il vostro ultimo bacio di Abbazia. Ché egli ne fu informato, madame, di quella nascita. Inutile aprire, Isabella, i vostri bellissimi occhi veneziani in così grande stupore. V’ho detto che non rividi mai, da allora, Sua Alezza. Ma non ho affatto assicurato che non scrissi all’Arciduca. Sapevo l’amabile Franz quanto mai superficiale e distratto. Credetti quindi mio stretto dovere, - dovere di servitore fedele, - illuminare, senza avere l’aria di far lume, la sua distrazione. […] E guardate, adesso, madame, l’ultimo ritratto, giunto a voi l’anno scorso per le feste di Natale, con gli auguri affettuosi di Sua Altezza. Bello certamente ancóra, nella diritta e maschia persona, l’arciduca Franz che voi avete amato a poco più di vent’anni. Ma non vedete intorno a lui una di quelle nebbie che oscurano dietro un grigiore di veli, quand’è autunno, anche i più ridenti paesaggi? […] Quelle nebbie vengono dall’anima e sono la vita. Guardate bene l’uomo, Isabella, dietro la sua atmosfera. Sembra scomparire nella penombra come una persona in una stanza dalla quale a poco a poco, morendo il giorno, la luce si ritiri. E interpretate, Isabella, quelle ombre: non sono quelle della vita trascorsa, dell’Impero caduto, dell’amore spezzato dalla morte. Quelle ombre sono le nebbie del padre mancato e della vita vuota, senza un figlio che rassomigli ad un’immagine che sta per scomparire, senza un erede che continui, nella sua giovinezza, il caduco bene d’una vita troppo breve. […] E fu da questa malinconia d’essere solo, senza nulla che, nascendo da lui, potesse farlo durare nel tempo, fu da questa malinconia che l’Arciduca ritrovò nella vostra casa, paternità segreta, bene non più suo, il pensiero di Rodolfo. […] La notizia - nei giornali, - vi è forse sfuggita. Ma io che ho più tempo, li leggo più attentamente di voi. L’Arciduca è a Venezia, all’albergo Danieli: a poche ore di distanza da voi… Scrivetegli laggiù; ricordategli che Abbazia è molto bella e ch’egli non l’ha riveduta da più di trent’anni; ditegli che a voi piacerebbe molto ritrovarvi un po’ con lui dopo sì lungo tempo; scopritegli, senza nulla spiegare, un po’ del vostro affanno materno per il bene di Rodolfo. Metterei la mano sul fuoco per una scommessa: l’Arciduca sarà qui tra pochi giorni. […] E ora, madame, buona notte. Le ore volano. Adesso è assai tardi. Vedo che i vostri begli occhi stanno per chiudersi. E Arrange-tout, avendo forse tutto accomodato una volta di più, non ha stanotte più altro da dirvi. Au revoir, dogaresse…». Scomparendo tra le ombre dalle quali era apparso, il barone von Stuck lascia Isabella con una speranza di riunione fra i due innamorati e di serenità tra i due fratelli.
La bella Carlotta è nient’altri che la figlia dell’ex-prima ballerina dell’Opéra di Vienna Frida Rosen, che dopo essere stata l’amante dell’arciduca Andrea, era convolata a nozze con un importante medico austriaco. Sottomessa al tiro incrociato di Jacopo, che l’accusa, senza nessun fondamento, di spionaggio durante la guerra – il momento narrato dall’autore raggiunge punte di forte e coinvolgente ilarità-, e di Franz, che le rivela la paternità di Rodolfo, imponendole il silenzio, la riottosa ex-prima donna convincerà il marito, amico del vendicativo ufficiale, a concedere la mano della propria figlia al figlio di Isabella Zuccarin, sognando di vederla sposata con l’ultimo degli arciduchi.
Lo svolgimento e la conclusione di tutto il racconto, su cui molto c’è ancora da dire, riflettono il romanticismo politico di cui gli anni in cui è ambientato erano permeati. Non si può fare a meno di riportare le parole dell’autore, per potersene rendere conto completamente.
«Mentre di là della curva del golfo verso Fiume la bella Abbazia d’autunno, dorata e languida, rivestiva di leggeri abiti i suoi ospiti, riabituandoli a godere il sole e il mare, nelle ore meno tristi, anche dietro lo specchio luminoso delle finestre, una grande villa tra mare e cielo sulla via di Fiume radunava quella mattina, in una selva colorita di bandiere e in un sonoro squillo di inni, l’Abbazia italiana dei nuovi tempi, il mondo operoso degli uomini rinnovati. Rinnovati gli uomini e le donne, ché non solo gli uomini avevano nelle membra sciolte, nei pensieri audaci e nelle decise parole quel senso vittorioso e pieno di virilità che si chiama gioventù, ma anche le donne – le nuove donne italiane, madri, compagne, guide, - facevano robusta di anima la loro fragile gentilezza estetica e dagli occhi che non rinunziavano tuttavia alle lusinghe dimostravano le fiere e consapevoli volontà. […] S’inaugurava quel giorno, in uno splendore d’autunno che, come ogni stagione ad Abbazia, era fatto di fiori, di sole e di primavera, il grande asilo di fanciulli di famiglie povere dell’Istria – operai, piccoli negozianti, artigiani, modesti impiegati, - che, nelle case sacrificate, nel sole povero e rado, nella polvere malfida, avevano potuto far sospettare un’insidia per i piccoli petti e i tardivi sviluppi. Fondato dalla generosità umana e nel nome glorioso d’un Maresciallo della grande guerra liberatrice, l’istituto, a breve distanza dagli spensierati e dai felici che la vita godevano nell’agio e nella sanità, voleva difendere l’esistenza minacciata dei più piccoli figli della patria, oscure vittime, in altri tempi, della casa stretta, del vitto povero, della finestra senza sole, della biancheria negletta, del contagio nell’imprudenza, dell’igiene ignorata. […] E là dove padri e madri non possono o non sanno difenderli, la madre più grande, la patria, li raccoglie, li ricovera, li mette al sole e tra i fiori, in un paradiso tra alberi e mare sopra grandi terrazze aperte all’aria e alla luce, sotto la vigilanza assidua dei medici, con la scorta e la più amorosa guardia della maternità volontaria ed eroica. Italiani e stranieri, costruttori della nuova Abbazia e testimonii dell’antica, si pigiavano dietro le fitte schiere, bene allineate, dei ragazzi dai grembiulini candidi e dalle testine scoperte che salutavano fieramente, nell’alzabandiera, il tricolore italiano che ascendeva, lassù in cima all’antenna, nel vento e nel sole, nello squillo delle trombe. E c’erano tutti, anche i vecchi austriaci dell’Ottocento, ad ammirare l’opera che Jacopo Zuccarin, camicia nera in alto d’una candida scala, maschio e guerriero con sole in faccia, cogliendo le parole dal cuore profondo e lanciandole al cielo col gesto largo, celebrava per i fanciulli e per gli uomini, per la nazione e per il mondo, davanti agli uomini di ieri e di oggi, nella parità spirituale senza frontiere che è fatta dalla carità dalla bontà e dalla bellezza.»
Al cospetto di tutta la famiglia, compresi il suocero di Rodolfo e l’arciduca Franz, ormai solamente barone di Leucken, Jacopo pronuncia parole commoventi, di fronte alle quali risulta difficile non sentirsi coinvolti. In sottofondo l’amore ritrovato tra Isabella e Franz s’intravede negli occhi dei due, ma non vuol essere palese. Riecheggiano dall’alto del palco le parole di Jacopo, che esalta le volontà e le energie nazionali che si stanno sviluppando nella terra nuova, «nella patria fatta più grande, sradicando vecchi pregiudizii d’un mondo sepolto, arieggiando le anime col vento eroico che in quel piccolo angolo ora italiano veniva dalla grande Italia che stava alle spalle, insegnando che la vita non è solo nel destino precario degli individui che momentaneamente compongono un popolo, ma nel perpetuarsi di volontà, di fedi, di responsabilità e d’ambizioni che si screditano e si trasmettono in una catena di secoli, superando i limiti della breve durata imposta all’uomo, per giungere a quella storia nei millennii che una Nazione, uno Stato, possono ambire e raggiungere, simulacro d’eternità celeste contro la legge divina di un’eternità impossibile in terra.
«- Dio guarda e incoraggia l’opera nostra quassù, fanciulli d’Italia, seme della vita futura! – gridava Jacopo in cima alla sua scala». E alle successive parole di Jacopo fa seguito l’entusiasmo dei fanciulli che «ruppe dai piccoli petti nel canto. Le piccole voci salivano in alto e si spandevano attorno come cori d’angeli scesi dal cielo in terra, come musiche di Dio. […] Ma all’improvviso un breve grido s’udì, da una parte, in mezzo alla ressa degli spettatori. Isabella e Franz videro Carlotta vacillare un momento e subito, pallidissima, rovesciarsi nelle braccia di Rodolfo Zuccarin». Dopo alcuni momenti di tensione, che lasciano facilmente immaginare quale possa essere l’epilogo, D’Ambra, con le parole del medico che ha soccorso la donna, poeticamente rivela che «avremo tra pochi mesi, qui ad Abbazia, un piccolo Italiano di più».
Ma il romanzo ha ancora qualcosa in sospeso: il barone di Leucken, Franz, è l’ultimo a lasciare la scena. Convinto dall’amore per la bella italiana a rimanere ad Abbazia per il resto dei suoi giorni, decide di far da padrino di battesimo al proprio nipotino, per poter così giustificare alla gente la sua affezione.
«Farò per il nipote, da nonno, tutte le pazzie che non ho potuto fare, da padre, per il nostro figliuolo… E quando mi vedranno ben bene istupidito per lui, non sarà gran male se li sentirò dire alle mie spalle: - Quel povero vecchio Arciduca… Vive adesso solo per l’amore d’un bambino… Sono proprio irrimediabilmente rammolliti, questi poveri superstiti dell’ancient régime…».
In questa conclusione, così tipicamente romantica, è racchiusa l’essenza estetica e poetica di D’Ambra. Percorrendo le fila di tutto il racconto, questo risulta permeato dal forte romanticismo politico caratteristico del nascente regime fascista. D’Ambra, nei panni di Jacopo Zuccarin, fa rivivere quella ricerca dello spirito del popolo, del carattere nazionale, dell’intimo della personalità collettiva e individuale, capace di far nascere e di stimolare avventure dell’azione e del sentimento. Nella descrizione di Jacopo Zuccarin, ‘camicia nera in alto d’una candida scala, maschio e guerriero con sole in faccia’, D’Ambra traspone, con tutti i suoi simboli, la figura del Duce che dall’alto del balcone propone discorsi alla folla, e, di conseguenza, indirettamente ma non velatamente, manifesta la sua adesione agli ideali fascisti.
Più di ogni altro sentimento, risalta quello dell’amor di patria, dell’attaccamento alle proprie origini ed alla propria terra e la volontà di farla risplendere di quella luce gloriosa che l’aveva illuminata per così tanti secoli. In questo modo prendono rilievo anche le parole che Jacopo pronuncia per il Martire della patria a cui è intitolato l’asilo dei bambini poveri di Abbazia e prende vigore il mistico senso di comunione con la terra e con i morti diffuso tra la gente dalla cerimonia d’inaugurazione.
Ma ancor prima, e soprattutto, nell’intermezzo, D’Ambra traspone in Jacopo anche le figure eroiche di D’Annunzio e di Italo Balbo. In particolar modo, nella descrizione del volo di Jacopo verso Abbazia, sembra di rivivere l’impresa eroica di Fiume. E anche se è vero che quest’ultima è successiva alla Prima Guerra Mondiale, è necessario tener presente che il romanzo è scritto nel 1937 e l’autore è anche poeta, sceneggiatore e regista, dunque si può concedere, e lo fa, la possibilità di fondere due figure distanti tra loro di qualche anno, ma vicine per sentimento ed eroismo. Jacopo diventa così un D’Annunzio ante-litteram. Un eroe individuale, solitario, rappresentante di un popolo latino che ritrova il suo vigore e vuole crescere, riconquistare e conquistare. Un eroe che sarà tale per tutta la vita. Molto diverso dal fratello Rodolfo, che invece, patendo un destino differente, un po’ vigliaccamente quasi si pente del suo unico gesto eroico. Ma anche in questo personaggio, nonostante tutto, sono presenti dei tratti vitali positivi. La conclusione del suo dramma d’amore è positiva, mentre per il primo Rodolfo è tragica. Rodolfo il Kronprinz è un eroe negativo, un eroe che rifiuta la vita per non combattere. Rodolfo Zuccarin, nonostante il suo primo impulso di rifiuto e di stizza nei confronti del fratello Jacopo, accetta il suo aiuto e ripone la sua fiducia in lui. Diventa, anche se non direttamente, un eroe positivo.
I due fratelli pur rappresentando due realtà diverse, contrapposte, in un certo senso tendono ad unirle. L’Italia e l’Austria, due patrie, sorelle poiché europee, sono in lotta fra loro perché l’una sottomette l’altra che, invece, vuole affrancarsi ad ogni costo. In questa guerra la più giovane, la più fresca e vigorosa, conquisterà la sua indipendenza ed avrà la meglio sulla più vecchia, che, invece, perderà ogni vestigia imperiale.
Tutti i protagonisti, alcuni altezzosi, altri tragici, come Rodolfo il Kronprinz, perdono quasi significato perdendo il loro mistico potere. Non esistono più arciduchi, principi ereditari, ballerine. Ma esistono uomini e donne con altri uomini e donne che della nuova patria sono i rappresentanti.
E l’esponente più semplice, ma al contempo più fiera e dignitosa, della nuova Italia, che domina con il suo carattere tutto il racconto, è Isabella Zuccarin. La sanità morale della sua persona, come risulta dalle stesse parole dell’introduzione di D’Ambra, “rispecchia la sanità morale di quell’Italia che s’è venuta a prendere, nel martirio dei mutilati e nella gloria dei morti, queste spiagge”.
E suo figlio Rodolfo, nuovo italiano ed antico austriaco, sposata una donna austriaca, dà ad Abbazia un figlio italiano, che rappresenta il trait d’union tra le due patrie contrapposte.
Sullo sfondo dello scenario l’ex-arciduca Franz, lascivo ragazzo di vent’anni protagonista del primo tempo, nel secondo è uomo maturo che ascolta commosso le parole italiane di Jacopo e ne ammira la forza della sua latinità.
Anche nelle descrizioni somatiche dei personaggi, D’Ambra rispecchia gli schemi ideologici del fascismo. Il ricorso alla forza fisica, la bellezza estetica, anche rude, dell’avvocato Jacopo Zuccarin richiamano, seppur indirettamente, gli ideali della razza, della latinità. Sono un richiamo al passato classico, romano. Quando Jacopo prigioniero si autodescrive, lo fa con parole che sembrano la descrizione del Duce: “io son massiccio, quadrato, forte, un maschio che sa bene quello che vuole e sempre lo fa”. E dal dettaglio dei tratti esterni promana anche la forza interiore, la decisione e la sicurezza di carattere che consentono all’uomo di conoscere bene ciò che vuole e di riuscire sempre a metterlo in atto.
Nella conclusione, quando ormai anche l’ex-arciduca è attratto e commosso dalle parole d’italianità di Jacopo, ama la sua donna italiana ed ama il suo futuro nipotino italiano, l’Austria non esiste più in quanto Impero, entità politica dell’Ancien régime, ma esiste solamente nei ricordi. E di questi ricordi il più romantico esponente è Arrange-tout che, ormai fantasma, vuol compiere l’ultimo gesto diplomatico di accomodamento. Egli rappresenta tutti i fantasmi del passato che ormai non hanno più corpo. Ed anche la riottosa e pseudo-aristocratica Frida Rosen, che non s’arrende all’evidenza dei fatti e vorrebbe ancora dettar legge, la sua legge, sarà costretta, proprio da colui – Franz – che è la prova vivente della fine del suo mondo, a cedere. Arrange-tout rappresenta l’Imperatore e l’Impero con i suoi arciduchi e le sue arciduchesse che sono solamente ombre nel nuovo scenario di quest’Abbazia italiana. La loro frivolezza e la loro mondanità hanno lasciato il posto alla operosità ed alla sanità morale dell’Italia vittoriosa della Grande Guerra.
Nella scrittura di D’Ambra sono presenti tutti gli elementi romantici della ritrovata forza nazionale. E l’Italia è descritta come una grande patria, dalla grande storia e dai grandi eroi. Nella sua opera risaltano le influenze della propaganda fascista dell’uomo eroico, forte e coraggioso e della donna madre orgogliosa dei suoi figli e vigile su di essi.
Il Romanzo di Abbazia diventa perciò il racconto di un’epoca, il riflesso di un modo di pensare e di agire, che a volte è stato facilmente assimilato a quelli che sono stati i tragici sviluppi successivi del fascismo e del nazismo.
Il sentimento dell’amor di patria, così evidente in D’Ambra, richiama gli ideali risorgimentali e post-risorgimentali di una nazione unita, redenta e forte, con cittadini uniti e identificati nella nazione ed il cui comportamento è un comportamento nazionale di fedeltà ad essa.
Il sentimento italiano che permea le pagine di questo romanzo è un sentimento di appartenenza ad un’entità sociale organica, nella quale la caratterizzazione di ‘italiano’ supera ogni altra caratterizzazione e crea e mantiene un legame, naturale, profondo che investe anche la sfera più intima della personalità degli individui che da tale caratterizzazione sono uniti.
La lettura di questo romanzo è un affascinante viaggio, nel tempo e nello spazio, in quelle meravigliose terre istriane e fa rivivere emozioni e sensazioni ormai perdute. È un ritorno commovente e coinvolgente in quelle terre che molti hanno dovuto abbandonare dopo la II Guerra Mondiale.
Un attento esame dell’evoluzione dei personaggi e della loro storia ambientata ad Abbazia, può rivelare come all’interno di una piccola storia locale e particolare, più o meno immaginaria, possano celarsi le tendenze e i tratti di un’età trascorsa.
Leggere la ‘piccola storia’ può insegnare a prendere in considerazione testimonianze indirette della ‘grande storia’ e, soprattutto, della storia dell’Adriatico prima e durante il ventennio fascista, che possono contribuire a dare una visione, forse più completa, di uno spaccato d’epoca di questi territori contesi.
Per concludere con le parole di D’Ambra: «Piccola Storia e grande Storia, miei cari Arciduchi ora pallidi e lontani nel tempo come vecchi e scoloriti pastelli di altra età. L’“Intermezzo” che divide i due libri di questo vostro romanzo, separa come l’arco che allontani l’un dall’altro due mondi, la vostra piccola storia galante e la grande storia degli Italiani. Sotto quell’arco del tempo è passata la guerra. Abbazia, dall’altra parte dell’arco, ha assunto il nuovo suo volto pur conservando quello che eternamente la Divinità volle concederle. […] non più convegno di dorati perditempo e d’incipriate regine della danza. Ma – nella nuova geografia morale che la rifà da cima a fondo – terra d’Italiani dove il cuore italiano italianamente opera e vuole».
Roberta Fidanzia

Libri, Cultura

---

| »