Vai ai Contenuti - Go to content Vai alla Navigazione - Go to navigation Vai alla Ricerca - Go to search
AGENSU :: Agenzia d'informazione telematica per la storia e le Scienze Umane

Iacopone da Todi e l'arte in Umbria nel suo tempo

mercoledì novembre 29, 2006

Iacopone da Todi e l'arte in Umbria nel suo tempo
Dal 2 dicembre 2006 al 2 maggio 2007


La citta' di Todi dedica una grande mostra a Iacopone. Si svolgerà dal 2 dicembre al 2 maggio 2007 al Palazzo del Popolo, Museo Pinacoteca.

Jacopo de' Benedetti, nato nel 1230 e morto nel 1306, è tra le personalità più affascinanti del suo tempo. Iacopone, che rappresenta la poesia umbra del Duecento, fu protagonista di una vita romanzata.

Nella mostra si potranno osservare manoscritti contenenti i testi delle sue laude, ed altri documenti contemporanei. Si potranno anche ammirare le immagini che ritraggono Iacopone, compreso un frammento di affresco attribuito a Paolo Uccello.

Una seconda sezione è dedicata all'arte umbra nel medioevo.
Angelo Gambella

Mostre, Medioevo

---

In Adriatico nell’Antichità e nell’Alto Medioevo

martedì novembre 28, 2006

Luigi Tomaz, In Adriatico nell’Antichità e nell’Alto Medioevo


In Adriatico nell’Antichità e nell’Alto Medioevo è il titolo dell’impegnativo volume di Luigi Tomaz, che nasce, come dallo stesso Autore dichiarato, dall’esigenza di raccontare la verità storica delle terre adriatiche, quelle terre che per tanti Italiani hanno significato la vita, ma più ancora la propria dignità e l’amor di patria uniti a tanto dolore e profonda nostalgia per averle dovute lasciare in nome di ideali più grandi ed importanti: la democrazia e la libertà. Queste terre ancora oggi rappresentano, nella memoria di istriani, fiumani e dalmati, una radice che non può essere recisa; anzi questa radice chiede con forza di essere piantata nuovamente nella coscienza della patria cui appartiene. Quella patria del cuore che anche il famoso scrittore Lucio D’Ambra, romano di nascita, cittadino di Abbazia per adozione, nomina nel suo romanzo dedicato a questa splendida cittadina rivierasca, una patria che richiede cura e dedizione affinché non si spenga la tenue fiamma del suo ricordo.
La memoria, la storia, la verità, sono, o dovrebbero essere, lo scopo di ogni storico. Tomaz non si ritiene storico, o per lo meno lascia intendere di non avere “i gradi sul berretto” per definirsi professionista della Storia e, forse, è proprio questa sua caratteristica a renderlo libero di scrivere la Storia. Anche il Prof. Arnaldo Mauri, che ha curato la presentazione del volume e che – si evince chiaramente dalle sue parole – se ne è fatto trasportare e coinvolgere razionalmente, sentimentalmente e, si può azzardare, anche ‘fisicamente’, nel riconoscere la passione morale di Tomaz, rende perfettamente merito alla scientificità e professionalità del suo lavoro. Infatti, anche ad una prima lettura superficiale del volume, si capisce perfettamente che la sua dovizia di particolari unita alla testimonianza di abbondantissime fonti, fanno di questo lavoro un’opera quanto meno meritoria e, soprattutto, necessaria nell’odierno panorama editoriale.
L’Autore non è nuovo a queste tematiche, anzi è ben noto ai ‘cultori della materia’ per le sue approfondite e circostanziate ricerche storiche: Le Chiese Minori di Cherso, Le quattro giornate di Cherso 12-15 giugno 1797 in difesa del Gonfalone di San Marco, La Galìa Chersana: un’isola e la sua Galea per sei secoli nell’Armata di San Marco, sono solo alcuni dei suoi titoli dedicati alla storia istriana e dalmata. Forse perché esule, forse perché originario di quelle terre cui si nega ogni assonanza culturale all’Italia, Tomaz sente come esigenza primaria, “intima”, quella di “cercare e raccontare quanto chi avrebbe il dovere di farlo non fa”.
Nell’Introduzione al libro egli si richiama all’insegnamento ricevuto dai Maestri di scuola, della scuola che ancora riteneva la sua missione “educativa ai grandi ideali” e non, con qualche felice eccezione, sostanziale ‘parcheggio’ di alunni indisciplinati ed arroganti, che usano gli ‘ideali’ per proprio tornaconto.
E dal ricordo di Tomaz emergono delle immagini vivide e vive: “l’arrivo del doge Pietro Orseolo con cento navi splendenti di armati e di vessilli, in una data tonda tonda, che un ragazzo non dimentica: l’anno mille”. Scrive: “Il mio maestro ci insegnava che proprio in seguito all’arrivo del doge noi parlavamo il nostro dialetto che era veneto e che tale era divenuto durante sette lunghi secoli evolvendosi dall’originaria parlata neolatina nella quale l’istriano antico, che ancora non è estinto, s’incontrava col dalmatico che nella vicina isola di Veglia aveva ceduto definitivamente al veneto ai tempi dei nostri nonni. Più tardi nel De Vulgari eloquentia trovai che Dante, setacciando i parlari italici, aveva posto nel crivello sia quello degli Aquilegienses, sia quello degli Yistriani che qualcuno poi ha voluto chiamare istrioto”. E dal ricordo personale l’Autore arriva diritto al cuore della storia e della storiografia. Perché le invasioni barbariche sono definite dalle storiografie slavo-germaniche “movimenti dei popoli”? E la storia prima dell’anno Mille? L’insediamento romano, la cultura latina, l’economia marittima negli scambi con l’altra sponda adriatica? Sono domande alle quali l’Autore risponde con sapienza e tecnica storica e per le quali dà qualche anticipazione nelle sue prime pagine. “Quando Roma, con guerre interminabili, stava affrontando i popoli etruschi, latini, italici e greci che la circondavano sul versante occidentale della penisola appenninica, l’Adriatico era un mare illirico, etrusco, italico e greco lungo l’una e l’altra delle sue sponde parallele affacciate sull’ampio canale che porta il Mediterraneo verso il centro dell’Europa”. Ed ecco una situazione ben definita: un incrocio di popoli, un incontro di culture, uno scambio di economie. Questo era l’Adriatico sin dal VI secolo a.C.
Il Volume si snoda, successivamente, attraverso quindici secoli di storia e passando dalla storia dell’Impero romano ai primi martiri cristiani adriatici, da Carlo Magno alla nascita di Venezia, dalle razzie slave al pericolo saraceno, dalla divisione tra Oriente ed Occidente all’arrivo del Doge Orseolo ed alla sua importante funzione storico-politica nella pacificazione e nella definitiva unione con Venezia, porta il lettore e lo studioso al cuore della storia dell’Adriatico.
Ed è proprio l’appartenenza alla cultura latino-veneta ad essere l’oggetto ed il soggetto del testo e della storia dell’Adriatico orientale. E si ritorna al concetto di partenza: la comune radice culturale, identitaria che non può e non deve essere rimossa. Come la filosofa Simone Weil, che esprimeva nelle sue bellissime pagine il dolore dello sradicamento, il male morale del distacco da un’appartenenza, il malheur di vivere lontano dalle proprie cose, intese nel senso di abitudini, immagini, paesaggi, voci e rumori, così anche in un testo storico di indubbio valore, si può leggere tra le righe della ferma volontà di raccontare la storia attraverso documenti, che a volte possono sembrare aridi e freddi, il calore e la passione verso la verità e verso le proprie origini. Il bisogno di manifestare e di sfogare la propria cultura, la propria identità, sono ancora più evidenti nel riportare in appendice documenti antichi e medievali, fotografie di reperti archeologici, di monete, di archi romani e di chiese medievali di chiara manifattura ed architettura italica, o meglio latino-veneta, che oltre a rendere più valido ed apprezzato il lavoro scientifico, gli rendono anche il giusto merito dal punto di vista sociale e morale.

Roberta Fidanzia
Roberta Fidanzia

Recensioni, Medioevo

---

Europa Sacra

lunedì novembre 27, 2006

Europa Sacra. Raccolte agiografiche e identità politiche in Europa fra Medioevo ed Età moderna, a cura di Sofia Boesch Gajano e di Raimondo Michetti.


Il volume Europa Sacra. Raccolte agiografiche e identità politiche in Europa fra Medioevo ed Età moderna, uscito per i tipi della Carocci, a cura di Sofia Boesch Gajano e di Raimondo Michetti, vuole rappresentare “un contributo alla storia della costruzione dell’Europa a partire dal versante della storia religiosa, considerata nei rapporti con la storia delle istituzioni, della società e della cultura” .
L’obiettivo, sicuramente ben realizzato, è quello di sottolineare l’importanza delle raccolte agiografiche medievali e moderne nell’ambito della ricostruzione della storia d’Europa, in quanto, proprio per le loro caratteristiche, offrono un esempio molto particolare di scrittura storica e “si pongono dunque su un terreno di confine tra una molteplicità di forma di indagine per la conoscenza della cultura storica fra Medioevo e Età Moderna” .
Il volume si articola in una serie di saggi, in varie lingue europee, organizzati in tre sezioni distinte: La sacralizzazione del territorio; Scritture agiografiche e culture religiose; Bilanci e prospettive.
Nella prima parte sono riportati studi specifici dei vari territori europei, quelli che poi si sono trasformati, secondo modalità e tempi differenti l’uno dall’altro, negli stati nazionali europei. Si passa, dunque, dal territorio di Brabante, in Belgio, del XV secolo, all’Irlanda del XVI e XVII secolo, dalla Spagna, alla Polonia, dall’Italia al Portogallo. Le compilazioni agiografiche sono, così, analizzate dal punto di vista del territorio, ma allo stesso tempo lasciano trapelare dai loro resoconti un comune modo di sentire religioso, che li unifica, quasi, in un’unica appartenenza culturale.
Gli studi contenuti nella prima parte del volume offrono la possibilità di riflettere sul livello di legittimazione del potere politico, legittimazione che può derivare proprio dall’idea di ’chiamare’ i santi a sostegno di un progetto “politico-culturale di un principe, di una famiglia nobiliare o comunque di un’autorità laica” . In questo senso le raccolte agiografiche forniscono materiale su cui riflettere e da indagare relativamente alla “nascita ed alla natura [...] dello Stato moderno, e, più in generale, ai processi di formazione degli Stati europei e alla formazione delle identità nazionali” .
La seconda parte del volume riporta, rielaborate e commentate, una serie di fonti agiografiche, spesso poco o per nulla note, al fine di trarne delle indicazioni relativamente al ruolo che la produzione agiografica ha svolto “all’interno di una più generale storia della cultura dell’età moderna” . Da questa indagine si evince la necessità per gli storici dell’epoca di una “certificazione storica e filologica [...] che assume caratteri peculiari all’interno di una produzione agiografica, proprio perché l’accertamento della verità agiografica deve coniugare in modo diretto la fedeltà al dato sovrannaturale, ispirato dalla fede, e l’impiego del dato storico, collegato con l’affidabilità del documento” .
La terza ed ultima parte del volume contiene due saggi conclusivi che, se da una parte tendono a proporre una visione complessiva del fenomeno ’agiografia come propaganda religioso-culturale’, offrono la possibilità di riflettere sulle possibili prospettive d’indagine che possono nascere da un’esperienza di studio diretta sulle fonti agiografiche.
Il volume, nella sua struttura e nei suoi sviluppi, sembra quasi voler rispondere alla domanda che Federico Chabod poneva nel suo saggio Storia dell’idea di Europa: “come e quando i nostri avi [hanno] acquistato la coscienza di essere europei” . Con i dovuti accorgimenti, si può, in un certo senso, sostenere che il tentativo di rintracciare nella ’sacralità’ dell’Europa il fondamento dell’identità europea sovranazionale, non contrasta con l’indagine di Chabod relativa all’idea di Europa. In molti punti, come relativamente al concetto medievale di christianitas che non coincide con quello di Europa , i due volumi si trovano a percorrere un sentiero quasi parallelo. Segno, questo, della sempre presente necessità d’indagare le radici della nostra identità nazionale e sovranazionale culturale europea. Il sentirsi europei, nelle forme prettamente religiose e cultuali (relative al culto) evidenziate in questo volume, non contrasta con il sentire nazionale. Riecheggiano, in quest’interpretazione, le parole di Jacques Le Goff: l’esperienza spirituale cristiana è stata trait d’union tra le varie nazioni europee. Il primo abbozzo dell’Europa, secondo il medievista, si è fondato su una duplice base: la diversificazione tra i vari popoli e regni fondati su tradizioni diverse tra loro e la cristianità, elemento comune e fondante, che modellava ed uniformava la religione e la cultura dei diversi popoli europei. In tal modo, fin dalle sue origini, l’Europa dimostra che l’unità può nascere dalla diversità delle nazioni .
La chiave di lettura interpretativa si trova nel titolo Europa Sacra ed il significato della sua scelta da parte dei curatori è esplicitata nell’introduzione: “L’Europa su cui ci interroghiamo è sacra [...] per sottolineare che il riconoscimento di tale fattore unificante non può essere ovattato dentro il contenitore ideologico-confessionale di un’Europa cristiana, né deve contribuire ad un’idea astratta ed ideale di un’Europa in divenire, che esisteva e va riscoperta, contribuendo, invece, a dischiudere anche la varietà dei percorsi cultuali, la polivalenza dei significati culturali, le metamorfosi che attengono alla storia della dimensione del sacro, così come è stata indagata nell’ambito della ricerca storico-religiosa e antropologica d’età contemporanea” .
Nonostante l’ambiguità del titolo del volume e dei suoi contenuti, ambiguità che rispecchia “l’esistenza e i termini di una dialettica tra universalità e regionalismi” , in conclusione, il volume riassume in sé e rappresenta quell’idea di Europa, che nasce nei secoli conclusivi del Medioevo, e che vede l’affermarsi delle prime istanze di una convinta appartenenza dei singoli popoli europei “ad un più vasto popolo degli europei” .

Roberta Fidanzia

Europa Sacra. Raccolte agiografiche e identità politiche in Europa fra Medioevo ed Età moderna, a cura di Sofia Boesch Gajano e di Raimondo Michetti, Carocci, 2002, pp. 432, ISBN 88-430-2377-2, Euro 26,40.
Roberta Fidanzia

Recensioni, Medioevo

---

Bicentenario della nascita di John Stuart Mill

sabato novembre 25, 2006

Il sito della Società Italiana per la Filosofia Politica celebra il bicentenario della nascita dell'economista John Stuart Mill ospitando al suo interno contributi di studiosi di filosofia politica.
Punto focale dell'indagine è relativa al benessere, inteso concettualmente come 'ciò che fa stare bene l'uomo'. In una parola, ciò che rende l'uomo 'felice'.
La felicità degli individui è, quindi, l'unica cosa che conta.
Sicuramente esistono altri scopi nella vita, altri beni rispetto alla felicità. Ma quest'ultimi non hanno valore se non per il fatto che, per quanto indirettamente, sono utili al fine di produrre benessere/felicità per le persone.
Allo stesso modo, valori politici quali l'eguaglianza, la giustizia, la libertà, e anche valori personali quali l'amore, la famiglia, la carriera, sono tutti riducibili, in quanto valori, all'utilità.
Anzi, sono valori perché sono strumentali alla produzione di utilità. Nel momento in cui cessano di produrre utilità, cessano di essere dei valori.
Di questo questo tema si è occupato J.S. Mill, in quanto economista utilitarista. Le due indagini presenti nel sito sono proposte da Ian Carter e da Antonella Besussi.
Il primo offre l'analisi del pensiero di J.S. Mill alla luce della lettura che dell'economista propone il filosofo Isaiah Berlin.
La seconda offre, invece, una rilettura di alcune pagine di Mill alla luce di un'interpretazione priva di condizionamenti estetici ed il più possibile vicina al dilemma dualistico libertà/autorità.
Roberta Fidanzia

Filosofia, Cultura

---

Franco Cardini, Giovanna d’Arco

mercoledì novembre 22, 2006

La necessità e la volontà di elaborare una Carta Costituzionale Europea hanno portato come conseguenza quella di evidenziare i fondamenti ideali dell’Europa radicati nella storia, nella cultura e nella religione. Proprio su quest’ultima si basa il dibattito politico attuale: inserire o meno nella Carta Europea un richiamo ai principi religiosi cristiani come base dell’unità culturale, storica e politica dell’Europa. È fuori da ogni dubbio che l’Europa medievale sia stata un’Europa cristiana e che il Medioevo italiano ed europeo sia stato un Medioevo Cristiano, come si evince dal significativo titolo di un’opera di grande rilievo del noto medievista Raffaello Morghen. E proprio in quest’ottica europeista s’inserisce l’interpretazione dell’Europa medievale di Franco Cardini. Nelle pagine del primo capitolo, La mia Giovanna, del libro dedicato a Giovanna d’Arco, l’Autore spiega come, partendo dalla passione giovanile, poi professionale e storica, per l’affascinante Pulzella d’Orléans, sia giunto ad una “delle poche convinzioni chiare e nette delle quali possa vantarmi: il mio deciso e rigoroso europeismo, il mio sentirmi sempre e prima di tutto – a livello civico non meno che culturale – un cittadino d’Europa” (pag. 9), passando dallo studio dell’avversario più acerrimo di Giovanna, Filippo il Buono duca di Borgogna. “E il ducato di Borgogna fra Tre e Quattrocento – con quel suo impiantarsi così fascinoso al confine tra Francia e Germania, con quel suo estendersi dall’Olanda alla Svizzera, con quella sua politica dei grandi orizzonti che andava dalla Spagna all’Italia fino ai bordi dell’Asia – mi sembrava rappresentare idealmente e perfettamente una specie di compendio anticipato d’Europa” (pag. 9).
Quest’Europa è lo scenario sul quale vive, si muove e muore la protagonista di una delle più affascinanti vicende del tardo medioevo, la “pulzella” Giovanna d’Arco.
Cardini, iniziando la sua trattazione dalla definizione della forma più probabile del suo nome – Jeannette Tart, data la pronuncia “dura del francese parlato tra Vosgi e Lorena” (pag. 11) -, descrive la figura moderna di questa donna sospesa tra la Chiesa e l’eresia, tra l’identità francese e la marginalità della sua regione natale, tra l’orgoglio di una femminile verginità, valore profondamente cristiano, e la rivendicazione del ruolo femminile nella società unito al contraddittorio rifiuto per gli abiti femminili, tra la fragilità fisica unita alla fermezza della fede religiosa e la forza morale e fisica per sostenere la guerra, contro una “fede ispirata alla pace e alla carità come la cristiana” (pag. 11).
È proprio dall’insieme di queste contraddizioni, forse solo apparenti, che emerge il profilo moderno ed affascinante di Giovanna.
L’Autore, che non nasconde la sua passione per la giovane donna di Francia, racconta la sua vita ed il suo personaggio con elegante abilità letteraria e regala al lettore un’immagine vivida e viva di Giovanna, come nel momento in cui ne narra l’inizio del trionfo: “la notizia dell’arrivo di Giovanna e delle sue profezie si era sparsa rapidamente, e dentro le mura la si accolse come una liberatrice. Il suo ingresso fu trionfale: incedeva come i santi guerrieri delle apparizioni su un grande cavallo bianco, chiusa nella risplendente armatura nuova, impugnando lo stendardo candido e seguita dal ‘Bastardo d’Orléans’ [...]. La gente si accalcava intorno alla Pulzella, felice di riuscire a toccarne le armi o il cavallo. Giovanna inviò [...] tre lettere di sfida agli inglesi: si trattava di missive perentorie nelle quali la sicurezza del mandato divino sonava come superba sicurezza, ma che erano tuttavia accompagnate – un apparente paradosso – anche da espressioni umili e quasi imploranti. Sgombrassero subito il campo, nel nome del Signore, secondo la Sua volontà. Gli inglesi risposero immediatamente e con insolenza: i due massimi titoli d’onore della Pulzella, il rapporto con le «voci» e la verginità, per loro erano sinonimi di «strega» e «puttana»; dal ponte essa ebbe uno scambio piuttosto brutale d’invettive col capitano inglese Glasdale, da lei chiamato per dileggio Glacidas, una parola che ricordava il gracidar delle rane. Quest’ultima idea poteva esserle venuta in mente dal contesto fluviale in cui si svolse il dialogo-sfida: ma sta di fatto che, di lì a poco, Glasdale sarebbe morto proprio annegando nel fiume, tirato in acqua dalle sue armi. Si disse più tardi che la Pulzella gli avesse predetto quella fine: il che contribuì da parte dei suoi sostenitori alla sua fama di profetessa, in campo avverso a quella di strega” (pag. 55).
Ecco, dunque, la Giovanna di Cardini vivere nuovamente la sua avventura terrena, trionfante e quasi spavalda, con attitudini non comuni per una giovane donna del tardo medioevo. La Pulzella combatte, si ferisce più volte, attacca e sconfingge le fortezze inglesi. È una “Giovanna cavaliere [e] quello era il suo bel maggio di gloria”.
Nella personalità di Giovanna ricorrono con vigore, oltre l’importante tema della guerra, i temi della regalità sacra. La Pulzella, infatti, dopo le prime vittorie contro gli inglesi, guidata dalle «voci», insiste sulla cerimonia di unzione del delfino. Cerimonia non necessaria dal punto di vista giuridico, bensì importante dal punto di vista sacro-popolare. Appare, quindi, il fondamentale motivo della religione popolare, dei riti popolari, quasi superstiziosi. E Cardini collega, in un certo senso come Jacques Le Goff, il sentimento della religiosità, della regalità sacra, a quello dell’identità nazionale. Con una fondamentale differenza: Le Goff si riferisce all’idea europea; Cardini a quella nazionale. Infatti, il primo abbozzo dell’Europa, secondo l’interpretazione di Le Goff, si è fondato su una duplice base: la diversificazione tra i vari popoli e regni fondati su tradizioni diverse tra loro e la cristianità, elemento comune e fondante, che modellava ed uniformava la religione e la cultura dei diversi popoli europei. In questo modo, sempre secondo lo storico francese, fin dalle sue origini l’Europa dimostra che l’unità può nascere dalla diversità delle nazioni.
Dal canto suo Cardini pone l’accento sul sentimento nazionale e sull’identità cristiana europea: “La mistica della regalità sacra era strettamente connessa, in Giovanna, a quella della nazione francese. Il sentimento nazionale, nel senso moderno del termine, ha senza dubbio radici medievali: nel pieno del XII secolo l’Europa, come luogo delle identità e delle diversità, aveva cominciato a disegnarsi nelle sue variabili all’interno del complesso unitario del corpus christianorum, della sancta Romana res publica, della cristianità latina” (pag. 58). Sotto la stessa cristianità le croci francese e inglese, l’una bianca e l’altra rossa, si fronteggiano e contrappongono.
In tal modo la Pulzella, una volta fatta prigioniera dagli inglesi, diviene l’obiettivo da distruggere per distruggere i francesi. “La questione era [...] politica: giudici e assessori erano tutti legati con certezza – sia pur non in egual misura – alla causa anglo-borgognona, e il loro scopo ultimo era colpire irrimediabilmente la credibilità e la rispettabilità del «re di Bourges». Una volta provato che l’autentica, sostanziale e principale protagonista e promotrice dell’incoronazione di Carlo VII a Reims era un’eretica, la reputazione di questi e della sua corona sarebbe stata compromessa per sempre” (pag. 92).
Il confronto tra Giovanna e i suoi giudici era sicuramente impari, nonostante la sicurezza che Dio fosse con lei, il che diminuiva, da parte sua, il senso di paura nei confronti dei teologi inquisitori che le si presentavano di fronte, mentre “essi provavano forse di fronte a lei, pur nascondendolo, qualcosa di simile ad un sentimento di ammirazione per certi versi, di paura per certi altri” (pag. 99). Il duello fra Giovanna ed i suoi giudici è il “duello fra il carisma e le istituzioni; tra l’impetuosa energia profetica di chi si sente direttamente investito da una missione divina e la ferma coscienza di chi gli contrappone le norme e gli argini stabiliti dalle regole teologiche, da quelle gerarchiche, da quelle giudiriche; tra le ragioni di chi sente d’aver ricevuto una chiamata e le ragioni di chi ritiene che non vi sia chiamata che non vada sottoposta alla disciplina delle mediazioni e delle verifiche” (pag. 99).
Fu proprio questo ‘diretto’ contatto con le «voci» a fungere da arma contro di lei, soprattutto nei momenti in cui Giovanna si era trovata in contrasto con esse. “A Melun, una volta annunziatale la cattura, aveva sentito di preferire la morte alla prigionia; a Beaurevoir aveva tentato una fuga che l’avrebbe messa al riparo da un amaro calice che le «voci» le avevano annunziato e che essa non si sentiva di bere fino alla feccia. Superba davanti alla Chiesa nel nome delle «voci», si era rivelata poi disobbediente anche dinanzi ad esse” (pag. 114).
E da questo momento prende avvio l’epilogo dell’avventura terrena di Giovanna. L’Autore, riportando ogni documento, narra con dovizia di particolari ogni istante del processo rivolto alla Pulzella. Fino alla tragica conclusione: il rogo di Rouen del 30 maggio 1431.
Da quel momento è nato il mito di Giovanna d’Arco: già prima della sua morte e sin d’allora, Giovanna la Pulzella è stata oggetto di studio, a volte o spesso non scientificamente storico, è stata creduta e interpretata come “eroina catto-nazionalista «di destra» o femminista-contestataria e magari cripto-omosessuale «di sinistra»” (pag. 166).
Cardini, dando pieno sfogo alla sua preparazione storica, non meno che filosofica, appassionata, conclude, forse un po’ amaramente, con queste parole: “Giovanna come fonte inesauribile d’ispirazione: bambina e soldato, donna e martire, profetessa e visionaria, devota e ribelle, patriota e santa. Cose che, tutte, si possono interpretare alla luce dell’et-et o dell’aut-aut: e questa è un’ulteriore ambiguità, un’ulteriore provocazione. Una donna per tutte le stagioni” (pag. 167).

Roberta Fidanzia


Franco Cardini, Giovanna d’Arco, Mondadori.
Roberta Fidanzia

Recensioni, Medioevo

---
« Articoli precedenti | Articoli successivi »