Nel primo tempo, precedente al primo conflitto mondiale, Abbazia è terra austro-ungarica, teatro dei capricci e delle scorribande amorose degli arciduchi d’Austria, nipoti dell’Imperatore Franz Joseph, dal quale ognuno di essi scappa rifugiandosi nel “bel cuscino di verde e d’azzurro”.
In questo paesaggio, descritto magistralmente da D’Ambra, si svolgono le vite sfarzose e leggiadre dei principi austriaci e delle loro amanti, ballerine dell’Opéra di Vienna. Ed ecco che suonano e danzano, come in un antico carillon, musiche e costumi di fine Ottocento, “tuniche immacolate, pantaloni neri e guanti glacés”, merletti e sottovesti di seta, che le leggere donne d’Austria e d’Ungheria erano pronte a sfilare per ottenere le preziose attenzioni di un bell’arciduca.
Due su tutte risaltano: Eva Strubbel e Frida Rosen, rivali nella vita e sul palcoscenico. La prima, Eva, ungherese, è l’amante giovanissima dell’Arciduca Franz, nipote immaginario dell’Arciduca Rodolfo, unico personaggio reale, protagonista della tragedia di Mayerling.
Eva, come la prima donna, compare “vestita di luce” sullo sfondo di un’Abbazia definita, con le parole di Franz, “il paradiso in terra”.
La seconda, Frida, prima ballerina all’Opéra, è l’amante segreta, ma non troppo, di un altro bell’arciduca, Andrea, cugino di Franz. Dato il suo ruolo sociale, acquisito più per le sue grazie che per il suo valore artistico, si concede il lusso di fare il bello ed il cattivo tempo, rivaleggiando, più che con Eva, con la madre di quest’ultima, impegnata, quasi follemente, a far salire di molti gradini lo stato sociale della figlia e ad inasprirsi per ogni futile e minima manifestazione d’immagine di potere di Frida.
Sullo sfondo di danze viennesi e carrozze bardate a sei cavalli bianchi, si alternano le coppie protagoniste del primo tempo del romanzo. Dunque: Eva e Franz, Frida e Andrea, Rodolfo e Maria Vécsera, e, tra questi, il temuto nonno e padre imperatore - che pur non comparendo mai direttamente, a tratti lo s’intravede alzarsi sulla scena tuonante come Zeus fra gli dei -, ed il minuto barone von Stuck, soprannominato Arrange-tout, tant’è abile nell’arte di porre rimedio ad ogni sorta d’inconveniente alla corte imperiale. L’ex-cancelliere che, tra tanti amori clandestini e turbolenti, si mantiene fedele all’amata moglie, anche a distanza di molti anni dalla sua perdita, risulta essere la figura più commovente del primo tempo, nonché di tutto il romanzo: «Io ho troppo veduto di che cosa è fatto l’amore sporco degli altri per non accontentarmi, tanto è pulito, del mio…». La sua forza di carattere ed il suo savoir-fair, lo renderanno indispensabile e benvoluto da tutti, compresi i lettori di ieri e di oggi. Attraverso di lui è raccontata, con abile maestria, la gerarchia della società austro-ungarica precedente alla Prima Guerra mondiale. Delicatamente ironica è la descrizione del giardino che con amorevoli attenzioni egli custodisce ed ordina, come si era occupato per mezzo secolo di ordinare le cerimonie e le feste di corte: «Come alla Hofburg o al Castello di Schönbrunn le categorie sociali s’erano per lui sempre disposte in varie sale di diverso splendore e di differente grandezza stabilendo una immutabile gerarchia di precedenze protocollari, così anche nel giardino di Abbazia il vecchio cerimoniere disponeva i fiori come se fossero altrettanti invitati, ammassando i più ordinarii, quelli di scarto, nelle due grandi aiuole che, paragonabili a due immense anticamere, eran subito ai due lati del cancello d’entrata. Venivano poi, in aiuole già disegnate con più garbo ed eleganza, i garofani e le dalie ch’egli soleva chiamare “i militari e le signore borghesi”. Più in là, sempre più piccine ma più adorne facendosi le aiuole a mano a mano che si avanzava verso la grande loggia a mare, i gigli - gl’immacolati gigli, - rappresentavano le incorruttibili magistrature dello Stato, mentre alti papaveri raffiguravano, rossi e tronfii sopra i lunghi steli, i grandi funzionarii dell’Impero. Di là di queste s’apriva poi una serie d’aiuole minuscole che il barone von Stuck chiamava il Corpo diplomatico, avendo fasciata ogni aiuola con piccoli fiori dai diversi colori nazionali delle varie rappresentanze che fiorivano al sole là dentro. E finalmente, giungendo allo spiazzo davanti alla loggia […] “le azalee sono le dame di Corte e ce ne sono, come vedete, di tutt’i colori; i crisantemi – malinconia, - sono gli alti dignitari dello Stato, i membri delle illustri Accademie, i grandi letterati noiosi e gli scienziati mal vestiti e di pessimo umore; le camelie son le signore, vellutate, pompose, fastose, della più alta aristocrazia austro-ungarica. […] – e i girasoli – sono gli uomini politici, […], i ministri, i grandi parlamentari che non stanno mai fermi dalla medesima parte e il sole seguono, innamorati della sua luce su le dorature delle loro uniformi, dovunque il sole vada”. […] nell’ultima aiuola, in un disegno verde di corona principesca, il cerimoniere aveva disposto, attorno a due ciuffi di rose bianche e vermiglie, - l’Augusta Coppia imperiale, - due cerchi di ortensie, regalità dei giardini, uno azzurro, uno rosso: gli arciduchi e le Arciduchesse, la primavera umana del Castello di Schönbrunn nelle sere di gala e di festa».
Per mezzo della sua arte diplomatica, Arrange-tout riesce sempre ad alleviare le pene d’amore – e di denaro – dei giovani arciduchi e delle loro belle accompagnatrici, chiedendo ed ottenendo permessi speciali ed assegni cospicui dal vecchio imperatore, che ha ormai dimenticato d’essere stato giovane anch’egli.
Rimanendo sempre nella discrezione, che gli è propria, l’ex-cancelliere, pur non essendo il protagonista principale del romanzo, assume un ruolo fondamentale, soprattutto quando, per placare l’ira di Franz Joseph, esacerbato dai continui scandali e dalle continue rivalità fra i vari nipoti, è costretto ad allontanare Eva Strubbel dal suo Franz, spedendo letteralmente la prima, con tanto di madre arrivista e prepotente, a Vienna, ed obbligando il secondo a proseguire il suo soggiorno nella città di Abbazia.
Proprio durante questo soggiorno obbligato vedrà la luce il nuovo amore, maturo, tra l’arciduca Franz ed una bella donna italiana, Isabella Loredano, che, figlia di una grande e nobile famiglia veneziana e sposata con un pittore di grandi e disilluse speranze, per il quale ha abbandonato tutto, casa, famiglia, nome e patrimonio, lo ospiterà nella sua abitazione dandogli una modesta, ma dignitosa, camera in affitto.
Isabella è descritta da D’Ambra in modo sublime, lasciando già intravedere l’alto ruolo simbolico che questa donna avrà nello svolgersi del racconto. Costretta a vivere con una persona che, sapendo di esserle inferiore, la umilia e la maltratta, non si perde d’animo e durante le lunghe assenze del marito lavora nella bottega di loro proprietà, facendo progredire le finanze familiari e, soprattutto, crescendo suo figlio, Jacopo Zuccarin, del quale si notano sin dall’inizio le doti di coraggio e sfrontatezza ed il forte sentimento italiano, quasi marcato nel proprio codice genetico. Come quando ricevette in dono, da un messo dell’arciduca Franz, una «grossa scatola di dolci che apparve al ragazzo legata in croce da un bel nastro dai colori austriaci. Ma non appena ricevuta la scatola, il piccolo Jacopo, senza neppure ringraziare, scappò via portandola con sé.
«- Vogliate scusare, signor capitano, - disse mortificata Isabella Zuccarin, - se il ragazzo non ha ringraziato del dono né Vostra Altezza né voi. Ma la commozione del regalo ha certamente superato in lui ogni altro sentimento. Penserò io a richiamarlo, adesso, affinché faccia il dover suo…
[…] Ma non ebbe tempo, la madre, di raggiungere il corridoio e di richiamare suo figlio; che già Jacopo rientrava da sé, tenendo qualche cosa dietro il suo dorso. E, venuto a piantarsi davanti al capitano Fröhler che gli sorrideva, senza sorridere, gli dichiarò:
«- Ho molto gradito il regalo di Sua Altezza Imperiale e vi prego di ringraziarla per conto mio. I dolci – e specialmente quelli che voi mi avete scelti, - mi piacciono moltissimo. Meno piaceva, però, a me che sono Italiano, il nastro che legava la scatola. E infatti sono subito corso in camera mia per cambiarlo.
Portando avanti le mani nascoste, mostrò al capitano Fröhler, che ancóra pallidamente sorrideva, la scatola legata in croce da un bel nastro tricolore. […]
Poi, sciolto il nastro bianco e rosso e verde, offerse al capitano Fröhler, con gesto amico, la scatola aperta dei cioccolatini, tuttavia nella paura di vedere l’ufficiale d’ordinanza prendergliene più d’uno. E mentre il capitano Fröhler con una carezza del suo guanto al ragazzo rifiutava l’offerta, Jacopo spiegò all’ufficiale austriaco:
«- E sa come l’avevo, io, questo bel nastro tricolore? Neppure la mia mamma lo sa. Me l’ha comprato il babbo… Sissignore, il babbo. Me lo porto sempre alla scuola, nel taschino della mia giacca, qui dove si mette di solito il fazzoletto. E quando il maestro, insegnandoci la storia, comincia a dir male dell’Italia ai ragazzi austriaci di Abbazia, io metto fuori un po’ di questo nastro affinché il maestro si ricordi che, tra i suoi scolari, ci sono anche io, Jacopo Zuccarin, Italiano e figlio d’Italiani…»
Dietro, dunque, all’Austria, protagonista del primo tempo, rappresentata come una padrona distratta e leggera, troppo impegnata nelle sue frivolezze di corte per prestare attenzione alla vita che quotidianamente si svolgeva nella terra definita da alcuni ‘la camera da letto degli arciduchi’, vi è già, e da sempre, un’Italia che lavora in sordina, senza leggiadre ciarlerie. Ed è proprio Isabella, con le sue alte doti morali e la sua laboriosità, a rappresentare la sua patria: nobile nell’anima, bella e solare, orgogliosa e dignitosa. Anche quando, dopo aver amato per lungo tempo Franz, egli sarà costretto a lasciarla per improvvisi impegni politici, sopravvenuti all’inaspettata tragedia di Mayerling – nella quale l’erede al trono Rodolfo uccise prima la sua amante, la baronessa Maria Vécsera, probabilmente in attesa di un figlio da lui, e poi si uccise a sua volta – Isabella, nascondendogli la propria gravidanza, lo lascerà partire, trattenendo le sue lacrime ed il suo dolore e mostrando un contegno degno di una regina. Solamente il fidato barone von Stuck conoscerà il suo segreto e vivrà il resto dei suoi giorni custodendolo, non prima di aver proposto alla donna di aiutarla a liberarsi di un fardello così pesante, lui che era abituato ad aggiustare tutto, compresi simili problemi con arciduchesse avventate, e di aver ricevuto un orgoglioso rifiuto a compiere un simile atto.
«- E avevo pensato anch’io, Eccellenza, per evitare questo mio involontario delitto verso Zuccarin, questa mia non deliberata prepotenza, di fare a mia volta, criminosamente, come l’Arciduchessa… Ma non è possibile. Guardate Abbazia, Eccellenza, vedete in questo cielo, in questo mare, in questi giardini, la volontà di vita che Dio ha messa dovunque sotto gli occhi incerti degli uomini… Qui, meravigliosamente, ogni seme è fiore, è frutto. Qui tutto sboccia, si apre, fiorisce, vive. E potrei io, in tanta vita, uccidere la vita? Qui più che altrove Dio non vuole, Dio non consente. Abbazia, splendore della divinità, impone la nascita di tutto ciò che è seme del mondo, fecondità degli esseri e delle cose, ricchezza e potenza della natura, dono di Dio, ragione d’essere del Creato, incontenibile e indistruttibile vita.
Era su la porta della piccola villa. In un sorriso diede le mani ad Arrange-tout:
«- Non c’è dunque questa volta, Eccellenza, nulla da accomodare. Parlerò a Zuccarin. E il figlio di Franz sarà mio, solamente mio…
E, come se già lo sentisse vivere nel suo seno, davanti al pavido vegliardo di Corte, Isabella Loredano, sentendosi sola davanti a Dio e rivedendo Maria Vécsera madre distesa nel sangue sopra il suo letto di morte, inorgoglì della sua nuova maternità, nel sole».
Il primo tempo si chiude così, con un velo di malinconia per un amore costretto a finire e con la figura di questa forte donna italiana, unica, di fronte alle deboli arciduchesse austriache, che spesso hanno avuto bisogno di nascondere i propri errori, la quale coraggiosamente decide di assumersi le proprie responsabilità e di pagare lei, e non altri, la propria mancanza, per quanto il pagamento potesse essere alto.
— Il “Romanzo di Abbazia” di Lucio D’Ambra (Parte 2)
giovedì dicembre 28, 2006
Roberta FidanziaIl “Romanzo di Abbazia” di Lucio D’Ambra (Parte 1)
mercoledì dicembre 27, 2006
Il “Romanzo di Abbazia” di Lucio D’Ambra.
Momenti e figure di un intellettuale italiano del primo Novecento.
Pubblicato nel 1937, Il Romanzo di Abbazia è il ritratto nitido e preciso di un’epoca, quella a cavallo della Prima Guerra Mondiale, ancora gloriosa per l’Italia, e di una città regale, Abbazia, adagiata sulla lussureggiante costa istriana e definita dallo stesso autore “dolce terra d’amore”.
Nato nella grande metropoli di Roma, D’Ambra, già nell’introduzione del romanzo, dichiara di aver sempre sentito l’esigenza di avere, accanto alla Patria grande, una piccola patria, “un cantuccio di mondo, […] uno di quei palmi di terra così piccini che, quando ci sono cari, fanno venire la voglia […] di sollevarli ad altezza del nostro petto pour les presser sur notre coeur”. Ed egli l’aveva trovato in una piccola cittadina della Costa Azzurra.
Fin quando il destino non volle strappargli prematuramente il figlio, Diego Manganella, lasciandolo solo in un paradiso indifferente alla tragedia nel quale, tanti erano i dolorosi ricordi, non poteva più vivere.
Dietro consiglio del suo caro amico francese Edmond Jaloux, anch’egli scrittore, che, nella sua lingua, ne aveva già esaltato le bellezze, conosce Abbazia e vi si trasferisce, innamorandosene al primo istante. Da questo momento, complice anche la manchevolezza in questo senso da parte del romanzo italiano, nasce il desiderio di elogiare e far conoscere “a tutti, con l’arte, quanto sia bella Abbazia”.
E così, come sulla scenografia di un teatro, sul panorama di Abbazia nascono e si alternano le vicende degli arciduchi dell’Impero Austro-Ungarico e degli italiani, vecchi e nuovi padroni di quella “Principessa lontana in riva al mare”, da sempre di sentimento italiano.
Ed è proprio questo sentimento d’italianità a guidare le fila di tutto il romanzo; da ogni sua pagina, da ogni sua frase, trapela l’amore per un’Italia che si stava costruendo, con fatica e con intenso lavoro.
Articolato in due tempi con un intermezzo, Il Romanzo di Abbazia, vuole mettere in risalto, con l’evoluzione degli eventi storici, l’evoluzione di un popolo e di una terra.
Lucio D'Ambra, pseudonimo di Renato Eduardo Manganella, 1877?-1880 / 1939-1940?, nel periodo tra le due guerre fu uno dei narratori italiani più prolifici e popolari. Fu autore mondano, versatile ed ottimista. Scrisse tra il 1891 ed il 1938. Le sue opere sono caratterizzate da una prosa brillante e da una grande inventiva. D’Ambra fu anche poeta, commediografo, organizzatore teatrale, regista, sceneggiatore e critico letterario (nel 1913 una felice intuizione critica lo spinse a parlare per primo in Italia di Proust). Dal 1916 lavorò con i maggiori registi dell’epoca, come Ugo Folena (Effetti di luce, 1916), Ivo Illuminati (Il re, le torri e gli alfieri, 1916), Augusto Genina (La signorina Ciclone, 1916), Amleto Palermi (La Bohème, 1917). Dal 1917 fu regista (Emir cavallo da circo, 1917, Ballerine, 1918, La commedia dal mio palco, 1918, Napoleoncina, 1918, L’arcolaio di Barberina, 1919, Il girotondo di undici lancieri, 1919, per un totale di una ventina di film fino a Tragedia su tre carte, 1922) e dal 1918 divenne anche produttore cinematografico (tra il ‘18 ed il ‘22 produsse una trentina di film). La sua concezione del cinema e della letteratura vede l’attività cinematografica e letteraria come un’attività artistica fondata su una perfetta ed armonica fusione tra fantasia e realtà in cui grande importanza avevano il ritmo, la scenografia, i valori luministici, cromatici e figurativi. Purtroppo, nonostante fosse un innovatore, D’Ambra non ebbe in realtà grande influsso sulla cinematografia italiana in declino negli anni Venti, mentre secondo Corrado Pavolini, in Lucio D’Ambra precursore di Lubitsch, egli influenzò ed impressionò autori come, appunto, il primo Lubitsch. In campo teatrale fonda nel 1913, con Achille Vitti, Il teatro per tutti, per la rappresentazione di commedie brevi, per lo più atti unici (tra cui la prima de Il dovere di un medico di Pirandello); nel 1923, fonda con altri Il teatro degli Italiani (all’Eliseo), nel quale si rappresentano Antona-Traversi, Bracco, Rosso di San Secondo; e nel 1932 fonda La baracca e i burattini. Nel campo della produzione letteraria chiari risultano gli influssi francesi. Legge Balzac, Bourget, Zola, ed in particolare per Il Romanzo di Abbazia s’ispira a Edmond Jaloux e all’italiano Arturo Marpicati. Il suo stile alterna leggerezza ed eleganza a magniloquenza retorica. Mantiene nelle sue opere, ed evidente è in questa, l’etica conservatrice, che confluirà nell’ideologia fascista. Sono frequentemente presenti elementi di dannunzianesimo, vene di romanticismo e notevole è il piglio moralista.
— Roberta Fidanzia
Momenti e figure di un intellettuale italiano del primo Novecento.
Pubblicato nel 1937, Il Romanzo di Abbazia è il ritratto nitido e preciso di un’epoca, quella a cavallo della Prima Guerra Mondiale, ancora gloriosa per l’Italia, e di una città regale, Abbazia, adagiata sulla lussureggiante costa istriana e definita dallo stesso autore “dolce terra d’amore”.
Nato nella grande metropoli di Roma, D’Ambra, già nell’introduzione del romanzo, dichiara di aver sempre sentito l’esigenza di avere, accanto alla Patria grande, una piccola patria, “un cantuccio di mondo, […] uno di quei palmi di terra così piccini che, quando ci sono cari, fanno venire la voglia […] di sollevarli ad altezza del nostro petto pour les presser sur notre coeur”. Ed egli l’aveva trovato in una piccola cittadina della Costa Azzurra.
Fin quando il destino non volle strappargli prematuramente il figlio, Diego Manganella, lasciandolo solo in un paradiso indifferente alla tragedia nel quale, tanti erano i dolorosi ricordi, non poteva più vivere.
Dietro consiglio del suo caro amico francese Edmond Jaloux, anch’egli scrittore, che, nella sua lingua, ne aveva già esaltato le bellezze, conosce Abbazia e vi si trasferisce, innamorandosene al primo istante. Da questo momento, complice anche la manchevolezza in questo senso da parte del romanzo italiano, nasce il desiderio di elogiare e far conoscere “a tutti, con l’arte, quanto sia bella Abbazia”.
E così, come sulla scenografia di un teatro, sul panorama di Abbazia nascono e si alternano le vicende degli arciduchi dell’Impero Austro-Ungarico e degli italiani, vecchi e nuovi padroni di quella “Principessa lontana in riva al mare”, da sempre di sentimento italiano.
Ed è proprio questo sentimento d’italianità a guidare le fila di tutto il romanzo; da ogni sua pagina, da ogni sua frase, trapela l’amore per un’Italia che si stava costruendo, con fatica e con intenso lavoro.
Articolato in due tempi con un intermezzo, Il Romanzo di Abbazia, vuole mettere in risalto, con l’evoluzione degli eventi storici, l’evoluzione di un popolo e di una terra.
Lucio D'Ambra, pseudonimo di Renato Eduardo Manganella, 1877?-1880 / 1939-1940?, nel periodo tra le due guerre fu uno dei narratori italiani più prolifici e popolari. Fu autore mondano, versatile ed ottimista. Scrisse tra il 1891 ed il 1938. Le sue opere sono caratterizzate da una prosa brillante e da una grande inventiva. D’Ambra fu anche poeta, commediografo, organizzatore teatrale, regista, sceneggiatore e critico letterario (nel 1913 una felice intuizione critica lo spinse a parlare per primo in Italia di Proust). Dal 1916 lavorò con i maggiori registi dell’epoca, come Ugo Folena (Effetti di luce, 1916), Ivo Illuminati (Il re, le torri e gli alfieri, 1916), Augusto Genina (La signorina Ciclone, 1916), Amleto Palermi (La Bohème, 1917). Dal 1917 fu regista (Emir cavallo da circo, 1917, Ballerine, 1918, La commedia dal mio palco, 1918, Napoleoncina, 1918, L’arcolaio di Barberina, 1919, Il girotondo di undici lancieri, 1919, per un totale di una ventina di film fino a Tragedia su tre carte, 1922) e dal 1918 divenne anche produttore cinematografico (tra il ‘18 ed il ‘22 produsse una trentina di film). La sua concezione del cinema e della letteratura vede l’attività cinematografica e letteraria come un’attività artistica fondata su una perfetta ed armonica fusione tra fantasia e realtà in cui grande importanza avevano il ritmo, la scenografia, i valori luministici, cromatici e figurativi. Purtroppo, nonostante fosse un innovatore, D’Ambra non ebbe in realtà grande influsso sulla cinematografia italiana in declino negli anni Venti, mentre secondo Corrado Pavolini, in Lucio D’Ambra precursore di Lubitsch, egli influenzò ed impressionò autori come, appunto, il primo Lubitsch. In campo teatrale fonda nel 1913, con Achille Vitti, Il teatro per tutti, per la rappresentazione di commedie brevi, per lo più atti unici (tra cui la prima de Il dovere di un medico di Pirandello); nel 1923, fonda con altri Il teatro degli Italiani (all’Eliseo), nel quale si rappresentano Antona-Traversi, Bracco, Rosso di San Secondo; e nel 1932 fonda La baracca e i burattini. Nel campo della produzione letteraria chiari risultano gli influssi francesi. Legge Balzac, Bourget, Zola, ed in particolare per Il Romanzo di Abbazia s’ispira a Edmond Jaloux e all’italiano Arturo Marpicati. Il suo stile alterna leggerezza ed eleganza a magniloquenza retorica. Mantiene nelle sue opere, ed evidente è in questa, l’etica conservatrice, che confluirà nell’ideologia fascista. Sono frequentemente presenti elementi di dannunzianesimo, vene di romanticismo e notevole è il piglio moralista.
L’immagine del Presepe nelle fonti francescane
sabato dicembre 23, 2006
A partire dal 1223, dopo l’approvazione della Regola, per alcuni biografi di Francesco si aprì quel periodo chiamato della “grande tentazione”, ovvero tentazione di abbandonare tutto, tutto quello che egli aveva fondato ma che da altri e da altre necessità era stato modificato. A momenti di sconforto, però, si univano anche momenti di remissione e di pacificazione con se stesso. Uno di questi momenti può essere senza dubbio quello della celebrazione del Santo Natale a Greccio nel 1223.
L’intenzione di Francesco era quella di organizzare una “sacra rappresentazione corale che trasforma[sse] in attore anche il pubblico accorso ad assistervi” . Tutte le persone potevano così partecipare veramente e sentitamente all’evento più importante per i cristiani: la nascita di Cristo.
Nell’idea di Francesco era viva l’intenzione di rappresentare la Natività come essa era realmente avvenuta, con i disagi e le difficoltà che Maria e Giuseppe avevano dovuto affrontare e che il piccolo Gesù si era trovato a vivere. Egli era un bambino - il Dio fatto uomo, il più umile degli uomini - che per questa ragione subiva tutte le difficoltà che la vita gli presentava, fin dal primo istante.
Importante risulta notare che nella sua ricostruzione Francesco si basa anche sul racconto dei Vangeli apocrifi. I Vangeli tradizionali, infatti, non accennano al bue o all’asinello, mentre quelli apocrifi riportano con dovizia questi ed altri dettagli. Francesco recupera queste immagini, consapevole, forse, proprio del loro valore umano e popolare.
Con la rappresentazione viva del Presepe la gente, la folla, avrebbe avuto di fronte a sé i brani del Vangelo. Tutti avrebbero potuto vivere la natività di Cristo, immedesimandosi nei personaggi ed avendo un contatto più vicino e diretto con il miracolo della Natività. Francesco riuscì a trasportare, in questo modo, il racconto evangelico dal piano della religione colta – non bisogna infatti dimenticare che la lettura dei testi avveniva in latino con voce del sacerdote che commentava nella predica la lettura dei passi evangelici, ma questa non riusciva a penetrare nei cuori e nelle anime e rimaneva distaccata dalle necessità della gente comune, che conosceva poco il latino o non lo conosceva affatto e non era in grado di seguire discorsi di teologia – al piano della religione popolare – infatti in questo modo la folla aveva davanti a sé il Bambino, la scena della Natività, poteva viverla e poteva avvicinarsi alla comprensione della Parola che era così percepita in maniera più immediata e diretta.
Racconta Tommaso da Celano, suo primo biografo: “Francesco [era] felice, profondamente commosso. Si rivest[ì] di parametri diaconali e cant[ò] con la sua bella voce il Vangelo, predic[ò] con parole dolcissime, trascin[ò] ed entusiasm[ò] gli astanti rievocando la piccola città di Betlemme, il Bambino divino e poverissimo, con tale entusiasmo infuocato che un cavaliere […] ebbe una visione: ‘gli sembrava infatti che un neonato giacesse esanime nella mangiatoia, che il santo di Dio si avvicinasse e destasse quel medesimo bambino da quella specie di sonno profondo. Questa visione non manca[va] – conclude Tommaso – di un suo significato perché davvero il fanciullo Gesù giaceva dimenticato nel cuore di molti e per grazia di Cristo, tramite il servo suo Francesco, fu risuscitato e il suo ricordo impresso in una memoria di nuovo partecipe’”.
Importante era, quindi, il significato profondo che si dava alla rappresentazione popolare della Natività: quello, cioè, di far rivivere nel cuore delle persone semplici, dei contadini, degli umili, l’immagine vivida di Gesù Bambino , che si era andata allontanando dall’immaginario popolare rimanendo serrata nei libri e negli strumenti di religiosità colta, per arrivare a far parte, infine, anche di quella che era la religione popolare.
In questo episodio, come in tutti gli altri legati ai miracoli di Francesco, si nota sempre più evidente l’avvicinamento del santo agli umili e ai poveri, in tutti i sensi. La sua religione è una religione popolare dall’inizio, con le sortes apostolorum, alla fine, con il Presepio, ed anche dopo la morte, con le Stimmate. Francesco non vuole i libri per predicare, per studiare, per imparare ed insegnare. Francesco vuole solo ascoltare e divulgare la parola di Gesù, con il canto, con le immagini, con l’esempio. In questo sta il profondo significato della sua opera: egli è diventato un povero, un lebbroso, un emarginato, per divulgare la parola di Dio, secondo le forme caratteristiche della religiosità popolare, ha tentato di capire a fondo, e vi è riuscito, le esigenze spirituali della gente, e, contemporaneamente, è rimasto nell’ambito della Chiesa, senza cadere nell’eresia e nell’insubordinazione nei confronti dell’autorità ecclesiastica.
Il significato intimo del Presepe è più volte evidenziato nelle fonti francescane, sia come strumento di obbedienza alla Chiesa, sia come strumento di elevazione nella povertà. Dalle parole di vari biografi e nei brani di teologi francescani risulta chiara l’importanza della rappresentazione del Presepe.
Ad esempio nella Cronaca delle sette tribolazioni di Angelo Clareno a proposito dell’amore di Cristo e della povertà si legge:
"Egli poi, a quelli che sentiva perfetti nell’amore di Cristo, apriva i secreti del suo cuore, ricevuti direttamente da Cristo e insegnava che l’amore e l’osservanza fedele e piena della povertà e dell’umiltà di Cristo è il fondamento, la sostanza e la radice della vita evangelica e della Regola a lui rivelata da Cristo: quella povertà ed umiltà che Cristo, il Figlio di Dio, consacrò: egli che è nato in una grotta da madre povera, che è stato deposto nel presepio, involto in pannicelli, perché non c’era posto per lui nell’albergo; e poi circonciso e offerto, e fuggì in Egitto e poi ritornando abitò a Nazaret, mendicando per tre giorni, e poi digiunò, predicò, morì, fu sepolto in un sepolcro altrui e risorse da morte".
Questa, diceva, è radice dell’obbedienza, madre della rinuncia, morte del compiacimento di sé e dell’avidità e dell’avarizia, obbedienza della fede, costruzione della speranza, dimostrazione dell’umiltà, prova e genitrice della pace di Dio, che supera ogni senso.
Ne L’Albero della vita di Ubertino da Casale, ritorna ancora il motivo della povertà: “Essa [la povertà] si strinse a te con tanta fedeltà che fin da quando eri nel seno della madre incominciò il suo ossequio, poiché, come si pensa, avesti il più piccolo tra i corpi animati. Quando usciti dal grembo, t’accolse nel santo presepio in una stalla e, mentre vivevi nel mondo, talmente ti lasciò privo di tutto che ti fece mancare anche un luogo ove posare il capo.
Anche negli Scritti di Chiara d’Assisi compare evidente l’insegnamento di Francesco ad amare la povertà: “E per amore del santissimo Bambino, ravvolto in poveri pannicelli e adagiato nel presepio, e della sua santissima Madre, ammonisco, prego caldamente ed esorto le mie sorelle a vestire sempre indumenti vili”e ancora: “Mira, in alto, la povertà di Colui che fu deposto nel presepe e avvolto in poveri pannicelli. O mirabile umiltà e povertà che dà stupore! Il Re degli angeli, il Signore del cielo e della terra, è adagiato in una mangiatoia!
Vedi poi, al centro dello specchio, la santa umiltà, e insieme ancora la beata povertà, le fatiche e pene senza numero ch’Egli sostenne per la redenzione del genere umano.
E, in basso, contempla l’ineffabile carità per la quale volle patire sul legno della croce e su di essa morire della morte più infamante. Perciò è lo stesso specchio che, dall’alto del legno della croce, rivolge ai passanti la sua voce perché si fermino a meditare: O voi tutti, che sulla strada passate, fermatevi a vedere se esiste un dolore simile al mio; e rispondiamo, dico a Lui che chiama e geme, ad una voce e con un solo cuore: non mi abbandonerà mai il ricordo di te e si struggerà in me l’anima mia”.
Ritornando, in conclusione, sull’importanza della rappresentazione religiosa e popolare del presepe e sul suo impatto rinnovatore, risulta opportuno riportare le belle parole del Grundmann, il quale rende pieno merito a Francesco e al suo ordine per aver saputo riportare la Chiesa tra la gente e la gente alla Chiesa: “l’eresia aveva acquistato un altro senso e un diverso contenuto da quando la Chiesa aveva ricevuto una nuova struttura, da quando gerarchia e movimento religioso non erano più in contrasto, ma uniti strettamente”.
Dalla Vita Prima di Tommaso da Celano, Il Presepe di Greccio
La sua aspirazione più alta, il suo desiderio dominante, la sua volontà più ferma era di osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e di imitare fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e del cuore la dottrina e gli esempi del Signore nostro Gesù Cristo.
Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’Incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro.
A questo proposito è degno di perenne memoria e di devota celebrazione quello che il Santo realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale del Signore.
C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita ancora migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quello della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: “Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhio del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposta dal Santo.
E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.
Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signori, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia.
Il Santo è li estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l’Eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima.
Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali, poiché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava il “Bambino di Betlemme”, e quel nome “Betlemme” lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole.
Vi si manifestano con abbondanza i doni dell’Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti, perché per i meriti del Santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria.
Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia.
Il fieno che era stato collocato nella mangiatoia fu conservato, perché per mezzo di esso il Signore guarisse nella sua misericordia giumenti e altri animali. E davvero colpiti da diverse malattie, mangiando di quel fieno furono da esse liberati. Anzi, anche alcune donne che, durantge un parto faticoso e doloroso, si posero addosso un poco di quel fieno, hanno felicemente partorito. Alla stessa maniera numerosi uomini e donne hanno ritrovato la salute.
Oggi quel luogo è stato consacrato al Signore, e sopra il presepio è stato costruito un altare e dedicata una chiesa ad onore di San Francesco, affinché la dove un tempo gli animali hanno mangiato il firno, ora gli uomini possano mangiare, come nutrimento dell’anima e santificazione del corpo, la carne dell’Agnello immacolato e incontaminato, Gesù Cristo nostro Signore, che con amore infinito ha donato se stesso per noi. Egli con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna eternamente glorificato nei secoli dei secoli. Amen.
— Roberta Fidanzia
L’intenzione di Francesco era quella di organizzare una “sacra rappresentazione corale che trasforma[sse] in attore anche il pubblico accorso ad assistervi” . Tutte le persone potevano così partecipare veramente e sentitamente all’evento più importante per i cristiani: la nascita di Cristo.
Nell’idea di Francesco era viva l’intenzione di rappresentare la Natività come essa era realmente avvenuta, con i disagi e le difficoltà che Maria e Giuseppe avevano dovuto affrontare e che il piccolo Gesù si era trovato a vivere. Egli era un bambino - il Dio fatto uomo, il più umile degli uomini - che per questa ragione subiva tutte le difficoltà che la vita gli presentava, fin dal primo istante.
Importante risulta notare che nella sua ricostruzione Francesco si basa anche sul racconto dei Vangeli apocrifi. I Vangeli tradizionali, infatti, non accennano al bue o all’asinello, mentre quelli apocrifi riportano con dovizia questi ed altri dettagli. Francesco recupera queste immagini, consapevole, forse, proprio del loro valore umano e popolare.
Con la rappresentazione viva del Presepe la gente, la folla, avrebbe avuto di fronte a sé i brani del Vangelo. Tutti avrebbero potuto vivere la natività di Cristo, immedesimandosi nei personaggi ed avendo un contatto più vicino e diretto con il miracolo della Natività. Francesco riuscì a trasportare, in questo modo, il racconto evangelico dal piano della religione colta – non bisogna infatti dimenticare che la lettura dei testi avveniva in latino con voce del sacerdote che commentava nella predica la lettura dei passi evangelici, ma questa non riusciva a penetrare nei cuori e nelle anime e rimaneva distaccata dalle necessità della gente comune, che conosceva poco il latino o non lo conosceva affatto e non era in grado di seguire discorsi di teologia – al piano della religione popolare – infatti in questo modo la folla aveva davanti a sé il Bambino, la scena della Natività, poteva viverla e poteva avvicinarsi alla comprensione della Parola che era così percepita in maniera più immediata e diretta.
Racconta Tommaso da Celano, suo primo biografo: “Francesco [era] felice, profondamente commosso. Si rivest[ì] di parametri diaconali e cant[ò] con la sua bella voce il Vangelo, predic[ò] con parole dolcissime, trascin[ò] ed entusiasm[ò] gli astanti rievocando la piccola città di Betlemme, il Bambino divino e poverissimo, con tale entusiasmo infuocato che un cavaliere […] ebbe una visione: ‘gli sembrava infatti che un neonato giacesse esanime nella mangiatoia, che il santo di Dio si avvicinasse e destasse quel medesimo bambino da quella specie di sonno profondo. Questa visione non manca[va] – conclude Tommaso – di un suo significato perché davvero il fanciullo Gesù giaceva dimenticato nel cuore di molti e per grazia di Cristo, tramite il servo suo Francesco, fu risuscitato e il suo ricordo impresso in una memoria di nuovo partecipe’”.
Importante era, quindi, il significato profondo che si dava alla rappresentazione popolare della Natività: quello, cioè, di far rivivere nel cuore delle persone semplici, dei contadini, degli umili, l’immagine vivida di Gesù Bambino , che si era andata allontanando dall’immaginario popolare rimanendo serrata nei libri e negli strumenti di religiosità colta, per arrivare a far parte, infine, anche di quella che era la religione popolare.
In questo episodio, come in tutti gli altri legati ai miracoli di Francesco, si nota sempre più evidente l’avvicinamento del santo agli umili e ai poveri, in tutti i sensi. La sua religione è una religione popolare dall’inizio, con le sortes apostolorum, alla fine, con il Presepio, ed anche dopo la morte, con le Stimmate. Francesco non vuole i libri per predicare, per studiare, per imparare ed insegnare. Francesco vuole solo ascoltare e divulgare la parola di Gesù, con il canto, con le immagini, con l’esempio. In questo sta il profondo significato della sua opera: egli è diventato un povero, un lebbroso, un emarginato, per divulgare la parola di Dio, secondo le forme caratteristiche della religiosità popolare, ha tentato di capire a fondo, e vi è riuscito, le esigenze spirituali della gente, e, contemporaneamente, è rimasto nell’ambito della Chiesa, senza cadere nell’eresia e nell’insubordinazione nei confronti dell’autorità ecclesiastica.
Il significato intimo del Presepe è più volte evidenziato nelle fonti francescane, sia come strumento di obbedienza alla Chiesa, sia come strumento di elevazione nella povertà. Dalle parole di vari biografi e nei brani di teologi francescani risulta chiara l’importanza della rappresentazione del Presepe.
Ad esempio nella Cronaca delle sette tribolazioni di Angelo Clareno a proposito dell’amore di Cristo e della povertà si legge:
"Egli poi, a quelli che sentiva perfetti nell’amore di Cristo, apriva i secreti del suo cuore, ricevuti direttamente da Cristo e insegnava che l’amore e l’osservanza fedele e piena della povertà e dell’umiltà di Cristo è il fondamento, la sostanza e la radice della vita evangelica e della Regola a lui rivelata da Cristo: quella povertà ed umiltà che Cristo, il Figlio di Dio, consacrò: egli che è nato in una grotta da madre povera, che è stato deposto nel presepio, involto in pannicelli, perché non c’era posto per lui nell’albergo; e poi circonciso e offerto, e fuggì in Egitto e poi ritornando abitò a Nazaret, mendicando per tre giorni, e poi digiunò, predicò, morì, fu sepolto in un sepolcro altrui e risorse da morte".
Questa, diceva, è radice dell’obbedienza, madre della rinuncia, morte del compiacimento di sé e dell’avidità e dell’avarizia, obbedienza della fede, costruzione della speranza, dimostrazione dell’umiltà, prova e genitrice della pace di Dio, che supera ogni senso.
Ne L’Albero della vita di Ubertino da Casale, ritorna ancora il motivo della povertà: “Essa [la povertà] si strinse a te con tanta fedeltà che fin da quando eri nel seno della madre incominciò il suo ossequio, poiché, come si pensa, avesti il più piccolo tra i corpi animati. Quando usciti dal grembo, t’accolse nel santo presepio in una stalla e, mentre vivevi nel mondo, talmente ti lasciò privo di tutto che ti fece mancare anche un luogo ove posare il capo.
Anche negli Scritti di Chiara d’Assisi compare evidente l’insegnamento di Francesco ad amare la povertà: “E per amore del santissimo Bambino, ravvolto in poveri pannicelli e adagiato nel presepio, e della sua santissima Madre, ammonisco, prego caldamente ed esorto le mie sorelle a vestire sempre indumenti vili”e ancora: “Mira, in alto, la povertà di Colui che fu deposto nel presepe e avvolto in poveri pannicelli. O mirabile umiltà e povertà che dà stupore! Il Re degli angeli, il Signore del cielo e della terra, è adagiato in una mangiatoia!
Vedi poi, al centro dello specchio, la santa umiltà, e insieme ancora la beata povertà, le fatiche e pene senza numero ch’Egli sostenne per la redenzione del genere umano.
E, in basso, contempla l’ineffabile carità per la quale volle patire sul legno della croce e su di essa morire della morte più infamante. Perciò è lo stesso specchio che, dall’alto del legno della croce, rivolge ai passanti la sua voce perché si fermino a meditare: O voi tutti, che sulla strada passate, fermatevi a vedere se esiste un dolore simile al mio; e rispondiamo, dico a Lui che chiama e geme, ad una voce e con un solo cuore: non mi abbandonerà mai il ricordo di te e si struggerà in me l’anima mia”.
Ritornando, in conclusione, sull’importanza della rappresentazione religiosa e popolare del presepe e sul suo impatto rinnovatore, risulta opportuno riportare le belle parole del Grundmann, il quale rende pieno merito a Francesco e al suo ordine per aver saputo riportare la Chiesa tra la gente e la gente alla Chiesa: “l’eresia aveva acquistato un altro senso e un diverso contenuto da quando la Chiesa aveva ricevuto una nuova struttura, da quando gerarchia e movimento religioso non erano più in contrasto, ma uniti strettamente”.
Dalla Vita Prima di Tommaso da Celano, Il Presepe di Greccio
La sua aspirazione più alta, il suo desiderio dominante, la sua volontà più ferma era di osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e di imitare fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e del cuore la dottrina e gli esempi del Signore nostro Gesù Cristo.
Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’Incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro.
A questo proposito è degno di perenne memoria e di devota celebrazione quello che il Santo realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale del Signore.
C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita ancora migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quello della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: “Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhio del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposta dal Santo.
E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.
Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signori, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia.
Il Santo è li estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l’Eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima.
Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali, poiché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava il “Bambino di Betlemme”, e quel nome “Betlemme” lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesù”, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole.
Vi si manifestano con abbondanza i doni dell’Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti, perché per i meriti del Santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria.
Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia.
Il fieno che era stato collocato nella mangiatoia fu conservato, perché per mezzo di esso il Signore guarisse nella sua misericordia giumenti e altri animali. E davvero colpiti da diverse malattie, mangiando di quel fieno furono da esse liberati. Anzi, anche alcune donne che, durantge un parto faticoso e doloroso, si posero addosso un poco di quel fieno, hanno felicemente partorito. Alla stessa maniera numerosi uomini e donne hanno ritrovato la salute.
Oggi quel luogo è stato consacrato al Signore, e sopra il presepio è stato costruito un altare e dedicata una chiesa ad onore di San Francesco, affinché la dove un tempo gli animali hanno mangiato il firno, ora gli uomini possano mangiare, come nutrimento dell’anima e santificazione del corpo, la carne dell’Agnello immacolato e incontaminato, Gesù Cristo nostro Signore, che con amore infinito ha donato se stesso per noi. Egli con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna eternamente glorificato nei secoli dei secoli. Amen.
Luis de Molina. La vita e le opere principali
sabato dicembre 23, 2006
Luis de Molina. La vita e le opere principali
di Roberta Fidanzia
Teologo, filososofo e giurista, Luis de Molina, nato in Spagna nel 1535, è stato una delle figure più interessanti e colte della Penisola Iberica del XVI secolo.
Nel 1551 inizia gli studi di Diritto a Salamanca, che lasceranno in lui un segno profondo, tanto da fargli maturare, in età avanzata, la sua opera politica più grande: De Iustitia et iure. L’apprezzamento di questa materia, da parte sua, contrasta con l’avversione che, invece, nutrivano nei suoi confronti, due contemporanei importanti di Molina: Lutero e Calvino.
Nel 1553 si reca a Sant’Ignazio come novizio e due anni dopo inizia gli studi di filosofia. Tra il 1559 ed il 1562 compie gli studi di teologia. Tra il 1562 ed il 1563 viene destinato ad Evora a sostituire il professor Jorge Serao e a terminare il suo dottorato. Successivamente viene trasferito a Coimbra, ma torna ad Evora nel 1567, dove inizia l’insegnamento di teologia ottenendo ampio successo di pubblico. Nel 1577 la peste colpisce Evora e la scarsissima affluenza di studenti nell’università favorisce il riposo di Molina che si dedica alla stesura di importanti testi. È in questo periodo che porterà a termine i cinque volumi dell’opera De Iustitia et Iure.
Nel 1583 inizia a scrivere la Concordia, nome con il quale è largamente conosciuta l’opera Liberi Arbitrii cum Gratiae donis, divina praescientia, providentia, praedestinatione et reprobatione Concordia, ovvero Concordanza del libero arbitrio umano con i doni della grazia, della divina prescienza, della provvidenza, della predestinazione e della condanna. La stesura di quest’opera, però, gli procura violenti attacchi, soprattutto da parte dei domenicani – in particolare Domingo Bañez –, e nel 1586 deve lasciare Evora per recarsi a Lisbona. Chiede il permesso per la pubblicazione dell’opera e, dopo alcune correzioni e moltissime difficoltà, nel 1588 ottiene l’autorizzazione dell’Ordine di Roma e del Tribunale dell’Inquisizione portoghese. Tra il 1591 ed il 1597 s’infiamma la discussione sulle tesi di Molina e del suo avversario Bañez. I due teologi si accusano reciprocamente di eresia: Molina è accusato di pelagianesimo e Bañez di aver scritto opere dalle quali Lutero avrebbe dedotto le sue idee eretiche.
Nessuno dei due vedrà la soluzione della questione: Molina muore il 12 ottobe 1600, Bañez il 22 ottobre 1604. Solamente nel 1607 la Chiesa stabilirà che né l’opera di Molina e dei suoi seguaci era pelagiana, né quella di Bañez e dei domenicani era luterana o calvinista.
Come già evidenziato, due sono le opere più importanti di Molina: dal punto di vista teologico la Concordia, mentre dal punto di vista filosofico-politico il De Iustitia et Iure, che da molti studiosi è considerata la sua opera magna, in quanto in essa Molina esprime con particolare efficacia la sua prospettiva liberale classica su questioni economiche, politiche e giuridiche.
Tutto il pensiero di Molina è permeato da una profonda fede nella libera scelta della persona umana e ruota intorno alla definizione del concetto dell’agente attivo. “Si dice libero l’agente che [...] è in grado di agire e di non agire, oppure è in grado di fare qualcosa in certo modo, così come di farla in modo contrario”. Dal punto di vista teologico la sua concezione della libertà della volontà si traduce nella comprensione della natura della libera azione umana alla luce della grazia di Dio e della divina precomprensione. Il suo concetto di libertà – potere di autodeterminazione – dedotto sia teologicamente che filosoficamente, dà impulso e sostiene il suo pensiero relativamente alla capacità dell’uomo di operare il bene. Secondo Molina – e per questo accusato, principalmente da Domingo Bañez, di pelagianesimo – l’uomo senza l’intervento della grazia può porre in atto azioni virtuose, anche caritatevoli; può resistere alle tentazioni, anche gravissime; può raggiungere il suo fine naturale. Tutto ciò sembrerebbe dare all’uomo un’autonomia eccessiva, ma questo è solo uno degli aspetti, interessantissimi, del pensiero di Molina. Questi stessi principi aprono un cerchio che sembra essere, forse, troppo stretto e chiuso. La chiave è il concetto di concausalità: le concause che producono uno stesso effetto hanno una certa uguaglianza, hanno qualcosa in comune, che non esclude la corrispondente subordinazione specifica. L’effetto è unico e indivisibile, ma con relazioni specifiche diverse, a seconda delle cause che concorrono nella sua produzione, in quanto ognuna di esse apporta un elemento specificante. Questo è l’elemento fondamentale per capire come Dio per la perfezione della Sua sapienza, che non ha bisogno dell’oggetto, per mezzo della Sua supercomprensione, può conoscere il precipuo della causa libera anche prima che questa produca il suo effetto nella realtà. Questa scienza di Dio, secondo Molina, è insieme perfettissima, ma non necessaria, ovvero potrebbe conoscere altre determinazioni creaturali ed è essa stessa contingente senza essere libera. È la “scienza media” e tramite essa, Molina, cerca di trovare una spiegazione coerente al problema della predestinazione, argomento portante della sua indagine speculativa, unitamente ed in stretta relazione ai concetti di libertà, grazia, rapporto Dio-uomo.
Nell’opera Liberi Arbitrii cum Gratiae donis, divina praescientia, providentia, praedestinatione et reprobatione Concordia (Lisbona 1588), Molina difende “un sistema chiamato ‘scienza media’, per il fatto di trovarsi, questa conoscenza, tra quella di mero intelletto e quella della visione suprema, al fine di far concordare la grazia divina con l’arbitrio. [...] Dio, grazie alla scienza della semplice intelligenza, vede tutto il possibile; grazie alla scienza media conosce quello che liberamente farebbe ogni volontà nell’ordine ad essa corrispondente. Egli vuole salvare tutti gli uomini, a condizione che anch’essi lo vogliano; perciò concede a tutti gli strumenti sufficienti, anche se non nella medesima misura. Tramite la scienza della visione conosce quelli che si salveranno e quelli che non si salveranno, e predestina ognuno alla gloria o all’inferno. La grazia, dunque, sarà efficace se cooperiamo con la nostra volontà. Questa collaborazione rende la grazia efficace in acto secundo. La grazia efficace in acto primo dipende solo da Dio” . Tentando di spiegare ulteriormente: per Dio la determinazione della creatura non è casuale, dunque la conoscenza che Egli ha eternamente di essa è metafisicamente certa. Tutto ciò presuppone in Dio un decreto eterno di comunicare con intenzione sincera e volontà seria per ottenere il consenso dell’uomo, senza però determinarlo. Perciò questa grazia efficace, anche se in acto primo, è un beneficio speciale di Dio rispetto alla grazia puramente sufficiente. In questo modo rimane salva la libertà umana, senza sminuire in nulla e per nulla il dominio supremo e la bontà di Dio.
L’idea di libertà umana forma le basi della nozione di società civile di Molina: mediante la grazia di Dio, le persone sono libere di esprimere in modo virtuoso il loro essere cittadini e di prendere decisioni su loro stesse relativamente a materie che riguardano il benessere materiale e spirituale. Molina afferma l’importanza della libertà individuale nel libero scambio e si oppone alla regolamentazione governativa dei prezzi e dei mercati. Condanna il mercato degli schiavi ritenendolo immorale e sostiene la proprietà privata.
Il testo fondamentale in cui si esprime la filosofia politica di Molina è il De Iustitia et Iure, composto di trattati e di 760 dispute etiche e giuridiche, nelle quali, inoltre, egli giustifica il tirannicidio, proprio in funzione del principio di libertà dell’uomo come agente attivo della volontà di Dio, e argomentando delle pene postpone il fine correttivo e reintegrativo nella società al bene comune della società, in quanto “il giudice non deve mirare tanto al bene del delinquente, quanto al bene comune della repubblica”.
Il piano dell’opera di Molina è molto originale ed interessante e trae ispirazioe dalla classificazione della giustizia di Aristotele. L’opera di Molina è influenzata dalla filosofia di San Tommaso e, inoltre, dalle idee di due domenicani a lui contemporanei: Vittoria e Soto.
Il trattato di Molina sull’origine e la natura della società civile si radica nella linea aristotelico-tomistica. Egli postula tre gruppi di ragioni all’origine della società politica. Le prime due costituiscono la base naturale per le funzioni ‘direttive’ dello stato: l’indigentia (l’istintivo razionale senso del bisogno) e la socialitas (che assicura la possibilità dello sviluppo umano). La terza è responsabile per il potere ‘coercitivo’ dello stato: l’eventus peccati (l’effetto della colpa originale).
Per Molina l’uso diretto del potere è conferito ai governatori attraverso una communicatio o concessio con le quali si rende inattiva la residua naturale autorità del popolo, ma la si lascia intatta. In un certo senso la si pone in stato di ‘attesa’. Pertanto rimane valido il diritto di resistenza al tiranno. Anche nel rapporto tra Stato e Chiesa, Molina utilizza il metodo dello stato di attesa: di regola il Papa non ha potere diretto d’intervento nelle questioni temporali, eccetto che nel suo Stato. Ma Molina concede alcune circostanze pratiche particolari nelle quali il Papa può intervenire nella giurisdizione temporale.
Nella sua indagine speculativa Molina si sofferma anche sulla definizione e divisione della legge, sulla relazione tra diritto naturale e ius gentium, nonché sulla relazione tra la legge positiva e problemi economici come l’imposizione delle tasse.
In conclusione si può dire che la filosofia politica di Molina sia realistica, considerando l’uomo nel contesto della storia a lui contingente; il suo pensiero sia personale, ponendo la libertà individuale al centro di tutta la sua speculazione; che la sua visione della società civile sia ampiamente democratica, considerando la possibile forte opposizione che il popolo potrebbe opporre ad un tiranno, ovvero ad un usurpatore dell’autorità.
— Roberta Fidanzia
di Roberta Fidanzia
Teologo, filososofo e giurista, Luis de Molina, nato in Spagna nel 1535, è stato una delle figure più interessanti e colte della Penisola Iberica del XVI secolo.
Nel 1551 inizia gli studi di Diritto a Salamanca, che lasceranno in lui un segno profondo, tanto da fargli maturare, in età avanzata, la sua opera politica più grande: De Iustitia et iure. L’apprezzamento di questa materia, da parte sua, contrasta con l’avversione che, invece, nutrivano nei suoi confronti, due contemporanei importanti di Molina: Lutero e Calvino.
Nel 1553 si reca a Sant’Ignazio come novizio e due anni dopo inizia gli studi di filosofia. Tra il 1559 ed il 1562 compie gli studi di teologia. Tra il 1562 ed il 1563 viene destinato ad Evora a sostituire il professor Jorge Serao e a terminare il suo dottorato. Successivamente viene trasferito a Coimbra, ma torna ad Evora nel 1567, dove inizia l’insegnamento di teologia ottenendo ampio successo di pubblico. Nel 1577 la peste colpisce Evora e la scarsissima affluenza di studenti nell’università favorisce il riposo di Molina che si dedica alla stesura di importanti testi. È in questo periodo che porterà a termine i cinque volumi dell’opera De Iustitia et Iure.
Nel 1583 inizia a scrivere la Concordia, nome con il quale è largamente conosciuta l’opera Liberi Arbitrii cum Gratiae donis, divina praescientia, providentia, praedestinatione et reprobatione Concordia, ovvero Concordanza del libero arbitrio umano con i doni della grazia, della divina prescienza, della provvidenza, della predestinazione e della condanna. La stesura di quest’opera, però, gli procura violenti attacchi, soprattutto da parte dei domenicani – in particolare Domingo Bañez –, e nel 1586 deve lasciare Evora per recarsi a Lisbona. Chiede il permesso per la pubblicazione dell’opera e, dopo alcune correzioni e moltissime difficoltà, nel 1588 ottiene l’autorizzazione dell’Ordine di Roma e del Tribunale dell’Inquisizione portoghese. Tra il 1591 ed il 1597 s’infiamma la discussione sulle tesi di Molina e del suo avversario Bañez. I due teologi si accusano reciprocamente di eresia: Molina è accusato di pelagianesimo e Bañez di aver scritto opere dalle quali Lutero avrebbe dedotto le sue idee eretiche.
Nessuno dei due vedrà la soluzione della questione: Molina muore il 12 ottobe 1600, Bañez il 22 ottobre 1604. Solamente nel 1607 la Chiesa stabilirà che né l’opera di Molina e dei suoi seguaci era pelagiana, né quella di Bañez e dei domenicani era luterana o calvinista.
Come già evidenziato, due sono le opere più importanti di Molina: dal punto di vista teologico la Concordia, mentre dal punto di vista filosofico-politico il De Iustitia et Iure, che da molti studiosi è considerata la sua opera magna, in quanto in essa Molina esprime con particolare efficacia la sua prospettiva liberale classica su questioni economiche, politiche e giuridiche.
Tutto il pensiero di Molina è permeato da una profonda fede nella libera scelta della persona umana e ruota intorno alla definizione del concetto dell’agente attivo. “Si dice libero l’agente che [...] è in grado di agire e di non agire, oppure è in grado di fare qualcosa in certo modo, così come di farla in modo contrario”. Dal punto di vista teologico la sua concezione della libertà della volontà si traduce nella comprensione della natura della libera azione umana alla luce della grazia di Dio e della divina precomprensione. Il suo concetto di libertà – potere di autodeterminazione – dedotto sia teologicamente che filosoficamente, dà impulso e sostiene il suo pensiero relativamente alla capacità dell’uomo di operare il bene. Secondo Molina – e per questo accusato, principalmente da Domingo Bañez, di pelagianesimo – l’uomo senza l’intervento della grazia può porre in atto azioni virtuose, anche caritatevoli; può resistere alle tentazioni, anche gravissime; può raggiungere il suo fine naturale. Tutto ciò sembrerebbe dare all’uomo un’autonomia eccessiva, ma questo è solo uno degli aspetti, interessantissimi, del pensiero di Molina. Questi stessi principi aprono un cerchio che sembra essere, forse, troppo stretto e chiuso. La chiave è il concetto di concausalità: le concause che producono uno stesso effetto hanno una certa uguaglianza, hanno qualcosa in comune, che non esclude la corrispondente subordinazione specifica. L’effetto è unico e indivisibile, ma con relazioni specifiche diverse, a seconda delle cause che concorrono nella sua produzione, in quanto ognuna di esse apporta un elemento specificante. Questo è l’elemento fondamentale per capire come Dio per la perfezione della Sua sapienza, che non ha bisogno dell’oggetto, per mezzo della Sua supercomprensione, può conoscere il precipuo della causa libera anche prima che questa produca il suo effetto nella realtà. Questa scienza di Dio, secondo Molina, è insieme perfettissima, ma non necessaria, ovvero potrebbe conoscere altre determinazioni creaturali ed è essa stessa contingente senza essere libera. È la “scienza media” e tramite essa, Molina, cerca di trovare una spiegazione coerente al problema della predestinazione, argomento portante della sua indagine speculativa, unitamente ed in stretta relazione ai concetti di libertà, grazia, rapporto Dio-uomo.
Nell’opera Liberi Arbitrii cum Gratiae donis, divina praescientia, providentia, praedestinatione et reprobatione Concordia (Lisbona 1588), Molina difende “un sistema chiamato ‘scienza media’, per il fatto di trovarsi, questa conoscenza, tra quella di mero intelletto e quella della visione suprema, al fine di far concordare la grazia divina con l’arbitrio. [...] Dio, grazie alla scienza della semplice intelligenza, vede tutto il possibile; grazie alla scienza media conosce quello che liberamente farebbe ogni volontà nell’ordine ad essa corrispondente. Egli vuole salvare tutti gli uomini, a condizione che anch’essi lo vogliano; perciò concede a tutti gli strumenti sufficienti, anche se non nella medesima misura. Tramite la scienza della visione conosce quelli che si salveranno e quelli che non si salveranno, e predestina ognuno alla gloria o all’inferno. La grazia, dunque, sarà efficace se cooperiamo con la nostra volontà. Questa collaborazione rende la grazia efficace in acto secundo. La grazia efficace in acto primo dipende solo da Dio” . Tentando di spiegare ulteriormente: per Dio la determinazione della creatura non è casuale, dunque la conoscenza che Egli ha eternamente di essa è metafisicamente certa. Tutto ciò presuppone in Dio un decreto eterno di comunicare con intenzione sincera e volontà seria per ottenere il consenso dell’uomo, senza però determinarlo. Perciò questa grazia efficace, anche se in acto primo, è un beneficio speciale di Dio rispetto alla grazia puramente sufficiente. In questo modo rimane salva la libertà umana, senza sminuire in nulla e per nulla il dominio supremo e la bontà di Dio.
L’idea di libertà umana forma le basi della nozione di società civile di Molina: mediante la grazia di Dio, le persone sono libere di esprimere in modo virtuoso il loro essere cittadini e di prendere decisioni su loro stesse relativamente a materie che riguardano il benessere materiale e spirituale. Molina afferma l’importanza della libertà individuale nel libero scambio e si oppone alla regolamentazione governativa dei prezzi e dei mercati. Condanna il mercato degli schiavi ritenendolo immorale e sostiene la proprietà privata.
Il testo fondamentale in cui si esprime la filosofia politica di Molina è il De Iustitia et Iure, composto di trattati e di 760 dispute etiche e giuridiche, nelle quali, inoltre, egli giustifica il tirannicidio, proprio in funzione del principio di libertà dell’uomo come agente attivo della volontà di Dio, e argomentando delle pene postpone il fine correttivo e reintegrativo nella società al bene comune della società, in quanto “il giudice non deve mirare tanto al bene del delinquente, quanto al bene comune della repubblica”.
Il piano dell’opera di Molina è molto originale ed interessante e trae ispirazioe dalla classificazione della giustizia di Aristotele. L’opera di Molina è influenzata dalla filosofia di San Tommaso e, inoltre, dalle idee di due domenicani a lui contemporanei: Vittoria e Soto.
Il trattato di Molina sull’origine e la natura della società civile si radica nella linea aristotelico-tomistica. Egli postula tre gruppi di ragioni all’origine della società politica. Le prime due costituiscono la base naturale per le funzioni ‘direttive’ dello stato: l’indigentia (l’istintivo razionale senso del bisogno) e la socialitas (che assicura la possibilità dello sviluppo umano). La terza è responsabile per il potere ‘coercitivo’ dello stato: l’eventus peccati (l’effetto della colpa originale).
Per Molina l’uso diretto del potere è conferito ai governatori attraverso una communicatio o concessio con le quali si rende inattiva la residua naturale autorità del popolo, ma la si lascia intatta. In un certo senso la si pone in stato di ‘attesa’. Pertanto rimane valido il diritto di resistenza al tiranno. Anche nel rapporto tra Stato e Chiesa, Molina utilizza il metodo dello stato di attesa: di regola il Papa non ha potere diretto d’intervento nelle questioni temporali, eccetto che nel suo Stato. Ma Molina concede alcune circostanze pratiche particolari nelle quali il Papa può intervenire nella giurisdizione temporale.
Nella sua indagine speculativa Molina si sofferma anche sulla definizione e divisione della legge, sulla relazione tra diritto naturale e ius gentium, nonché sulla relazione tra la legge positiva e problemi economici come l’imposizione delle tasse.
In conclusione si può dire che la filosofia politica di Molina sia realistica, considerando l’uomo nel contesto della storia a lui contingente; il suo pensiero sia personale, ponendo la libertà individuale al centro di tutta la sua speculazione; che la sua visione della società civile sia ampiamente democratica, considerando la possibile forte opposizione che il popolo potrebbe opporre ad un tiranno, ovvero ad un usurpatore dell’autorità.
Seminari di Musica antica
sabato dicembre 23, 2006
Venezia dal 14 al 20 maggio 2007 ospiterà Seminari di Musica Antica organizzati dalla Fondazione Giorgio Cini.
Il Seminario tal titolo 'Codex Faenza 117 e l'alternatim in Italia alla fine del medioevo (1390 - 1420)'', è rivolto a tastieristi (solisti di organo, clavicembalo, organetto, echequier) ed è dedicato al primo repertorio tastieristico italiano nel suo rapporto con la storia del canto liturgico.
Programma:
14 maggio (Fondazione Ugo e Olga Levi)
Giornata introduttiva:
La codicologia di Codex Faenza 117
a cura di Pedro Memelsdorff.
15-18 maggio (Fondazione Giorgio Cini)
Seminario per tastieristi
a cura di Luigi Ferdinando Tagliavini.
Conferenze sulla prassi gregoriana tardo medievale
a cura di Giacomo Baroffio, Marco Gozzi e
Marcel Peres.
19 maggio (Fondazione Giorgio Cini)
Giornata internazionale di studio:
L'alternatim in Italia alla fine del medioevo
20 maggio (Fondazione Giorgio Cini)
Giornata di prove aperte e concerto finale
— Angelo Gambella
« Articoli precedenti
|
Articoli successivi »
Il Seminario tal titolo 'Codex Faenza 117 e l'alternatim in Italia alla fine del medioevo (1390 - 1420)'', è rivolto a tastieristi (solisti di organo, clavicembalo, organetto, echequier) ed è dedicato al primo repertorio tastieristico italiano nel suo rapporto con la storia del canto liturgico.
Programma:
14 maggio (Fondazione Ugo e Olga Levi)
Giornata introduttiva:
La codicologia di Codex Faenza 117
a cura di Pedro Memelsdorff.
15-18 maggio (Fondazione Giorgio Cini)
Seminario per tastieristi
a cura di Luigi Ferdinando Tagliavini.
Conferenze sulla prassi gregoriana tardo medievale
a cura di Giacomo Baroffio, Marco Gozzi e
Marcel Peres.
19 maggio (Fondazione Giorgio Cini)
Giornata internazionale di studio:
L'alternatim in Italia alla fine del medioevo
20 maggio (Fondazione Giorgio Cini)
Giornata di prove aperte e concerto finale